di DANILO CARUSO
Era già noto dal passato che il paese di Lercara Friddi dovesse la sua origine, alla fine del ’500, all’intraprendenza del nobile imprenditore genovese Leonello Lercaro trapiantatosi in Sicilia. Tra il 2000 ed il 2005 ho scoperto l’esistenza di diversi manoscritti settecenteschi – autori il Della Cella, il Ganducci, il Giscardi ed il Buonarroti – riguardanti la storia dei Lercari presso Biblioteche di Genova, l’Universitaria e la Civica Berio, e di diversi testi a stampa che parlano di costoro (tra cui il “Liber Nobilitatis Genuensis”). Da questi rinvenimenti ho tratto spunto per ricostruire tutta la storia della famiglia Lercari dalle origini armene alla genesi di Lercara Friddi. Questa ricerca è riportata in un saggio custodito anche nelle biblioteche genovesi testé menzionate. Dopo un processo al doge genovese Giovanni Battista Lercaro (cugino di primo grado del padre di Leonello), intentatogli nel 1566, la famiglia cadde temporaneamente in disgrazia. Questo è l’unico motivo plausibile che può aver spinto Leonello Lercaro, che era appartenente a quei rami familiari radicati nella politica genovese, a cercar fortuna altrove, in Sicilia dominio spagnolo, magari con qualche buon ufficio dell’ex doge Giovanni Battista negli ambienti governativi spagnoli in cui era ben accreditato. Leonello Lercaro si era trasferito in Sicilia nel 1570, nel 1572 aveva sposato Elisabetta Ventimiglia (di famiglia originaria della Liguria), il cui padre versava in difficoltà economiche, avendo in cambio una consistente dote nella quale figuravano i feudi Friddi Grandi e Faverchi. La Sicilia era stata scelta, come sembra evidente, con ragionamento mirato come nuova terra in cui sfruttare le inclinazioni familiari filospagnole e filoliguri (durante i regni di Filippo II e di Filippo III di Spagna fu, tra i vari, viceré di Sicilia Giovanni Ventimiglia di Geraci). Il Lercaro, abile imprenditore (era in società con l’altro genovese Andrea Lomellino), cercava di emergere nella società isolana dell’epoca oltre che come ricco affarista anche come nobile: con il suo matrimonio aveva raggiunto la baronia dei citati feudi, ma i suoi propositi erano più ambiziosi: proiettare il nome dei Lercari nel futuro fondando un nuovo centro urbano, di almeno ottanta abitazioni; cosa che gli avrebbe garantito il conseguimento del rango di principe. L’inizio dei lavori era scattato dopo le nozze con l’edificazione di un alloggio per sé, di una locanda (che probabilmente già esisteva come luogo di sosta sulla via Palermo-Agrigento), di magazzini, nonché di una chiesetta (san Gregorio patriarca d’Armenia), nel punto più favorevole del feudo Friddi, dove fece impiantare diverse coltivazioni tra cui la vite. Nel 1580 però un po’ tutte le sue attività entrarono in crisi e la sua scalata si bloccò fermando anche il piano di sviluppo del protovillaggio di Lercara. Lo riprese nel 1595 quando dette la figlia Francesca in moglie all’alto funzionario spagnolo Baldassare Gomez de Amezcua. Francesca, che aveva ereditato i feudi dalla madre, morta nel 1594, li indotò al coniuge col titolo baronale (la dote di Leonello Lercaro era rientrata ai Ventimiglia per non essere presa di mira dai creditori). Il de Amezcua, secondo gli accordi matrimoniali concordati col suocero, ebbe concessa l’ufficiale licentia populandi il 22 settembre 1595. Leonello Lercaro si spense il 12 ottobre 1600 senza concretizzare i suoi intendimenti: ma è intuibile come sino a quel momento fosse stato di sprone verso il genero. E passarono alcuni anni affinché nel 1603 il barone fissasse i Capitoli (uno statuto che regolava i rapporti civico-feudali), stavolta presumibilmente su pressione della moglie che voleva onorare la memoria del padre e del casato attuando il di lui progetto. Baldassare Gomez de Amezcua morì pure il 4 agosto 1604 a Palermo da dove gestiva la signoria attraverso la figura di un procuratore. Francesca Lercaro rimase isolata nella continuazione dell’ambizioso sogno del genitore, e chiese il primo settembre 1604 una seconda licentia populandi che ottenne il 9 luglio 1605. Questa ulteriore licentia populandi, concessa ad un esponente della famiglia Lercari, aveva il solo obiettivo di legare il loro nome alla genesi del progetto ed all’evoluzione del titolo (Lercara divenne principato nel 1708 con Giuseppe Blasco Scammacca). La signoria di Lercara doveva restare nelle intenzioni alla famiglia Lercari: infatti Francesca nel 1606 si risposò con il cugino Ido Lercaro, ma spirò anche lei precocemente nel 1610, e la baronia passò alla figlia di primo letto Raffaella, che si unì poi in matrimonio con Blasco Scammacca. Se dal secondo matrimonio di Francesca, che aveva due figlie in vita, fosse nato almeno un maschio sarebbe stato un Lercaro che avrebbe ereditato il titolo che fu nelle mire di suo nonno Leonello. Le due licentiae populandi di Lercara Friddi recitano che il nuovo paese dovesse chiamarsi Lercara a sottolineare, in entrambe, come il de Amezcua fosse solo una comparsa ed uno strumento dell’idea, non l’autore reale. La seconda licentia populandi ha questo scopo: ridare ai Lercari la paternità giuridica nel disegno di edificazione del villaggio.
per approfondimenti vedasi
Danilo Caruso / “I Lercari / Fondatori di Lercara Friddi” in “ORIGINI E SPIRITUALITÀ DI LERCARA FRIDDI / Associazione socio-culturale Cartastampata, 2006”