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giovedì 23 gennaio 2020

PRIGIONIERI DELLA HEIDEGGERIANA FORTEZZA BASTIANI DI BUZZATI

di DANILO CARUSO


Drogo guardò ancora verso il settentrione; le rocce, il deserto, le nebbie in fondo, tutto pareva vuoto di senso.

Dino Buzzati, “Il deserto dei Tartari”


La copertina
del libro ideata
da Buzzati
Dino Buzzati (1906-1972), scrittore poliedrico, pittore, è stato l’autore del famoso e pregevole romanzo “Il deserto dei Tartari”: testo pubblicato dalla casa editrice Rizzoli nel 1940 dietro suggerimento di Indro Montanelli (1909-2001); in sede di stampa però, volendo allontanare qualsiasi forma di possibile collegamento alla situazione politica internazionale contemporanea, fu pretesa la modifica del titolo proposto (“La fortezza”). La vicenda raccontata trae ispirazione dall’esperienza vissuta del suo creatore all’epoca in cui era un giovane giornalista. Il protagonista dell’opera, Giovanni Drogo, desideroso di abbandonare la monotonia del periodo di formazione giovanile, fantasticando una futura prospettiva più piacevole, lascia la casa della madre al fine di iniziare la sua vita da militare avviandosi a raggiungere la Fortezza Bastiani. Lo scrittore fu condizionato dalla figura materna da cui si sentì lontano nella sua storia personale (dalla scomparsa di lei indosserà solo cravatte nere). Durante il suo tragitto Giovanni incrocia il capitano Ortiz, là di stanza. Fra i due si apre un dialogo al termine del quale poi raggiungeranno la piazzaforte. Drogo rimane deluso dalla sua destinazione: una zona isolata dal resto della comunità e un fortilizio posto su un confine per niente frequentato data la sua infelice conformazione morfologica, in pratica un presidio in mezzo a un reale deserto di pietre e alture rocciose le quali impediscono la vista oltre. L’immagine della montagna possiede in Buzzati, appassionato di alpinismo, contenuti concettuali in comune con la poetessa Antonia Pozzi (entrambi furono sulle Dolomiti): essa si manifesta come nella poesia pozziana quale simbolo archetipico junghiano di una Grande Madre (negativa)1. Giovanni, la cui volontà è quella di essere trasferito quanto prima altrove, riesce, in deroga illecita alle disposizioni, a soddisfare un suo desiderio: lanciare uno sguardo al Nord dalla cima delle mura della struttura militare, questa uno spazio accessibile solo ai soldati assegnati di turno. Soddisfatta tale voglia si recherà poi a dormire nel suo alloggio, ulteriormente contrariato dai disagi ivi trovati. Il tenente Drogo, preso servizio presso la Fortezza Bastiani, ha un singolare dialogo col sergente maggiore Tronk. La cosa lo disorienta al punto tale di farlo pentire di aver acconsentito al maggiore Matti sulla sua provvisoria permanenza in luogo di una richiesta di trasferimento immediato. Ne “Il deserto dei Tartari” appare l’esistenzialistico tema dello scorrere del tempo: un’inesorabile progressione in avanti il cui orizzonte rimane oscuro e incerto nonostante l’umana vocazione a un approdo rassicurante. Al pari del vincitore del Premio Nobel Salvatore Quasimodo (1901-1968), Buzzati ribadisce il timore radicale: «Ognuno sta solo sul cuor della terra». Isolato e prigioniero della gabbia temporale l’essere umano cammina verso l’ignoto immerso nel turbamento. La Fortezza Bastiani rappresenta nel romanzo un simbolo dell’esistenza umana nella forma della vita isolata, ossia votata all’introversione, la quale si oppone all’estroversione simboleggiata nell’immagine della città. Detto fortilizio raffigura nella sua dinamica un’allegoria esistenziale, dove il deserto antistante costituisce la prospettiva della vita davanti. L’interna esistenza del forte, vale a dire l’icona di un Io barricato nella garanzia offerta dalle abitudini di comodità, offre la sicurezza nella ripetitività. Nonostante la primordiale intenzione di essere trasferito, Giovanni Drogo sceglie di rimanere in servizio nella roccaforte cui è stato assegnato: egli sceglie l’introversione all’estroversione, ponendosi nella modalità dell’attesa; rinunzia a dare un assalto alla vita aspettando che sia questa a eleggerlo a un grado superiore. «La moda ha da essere il regolamento»: l’inesorabilità scaturente dalla costituzione esistenziale improntata a regolarità ripetitiva non concede deroga all’esercizio della libertà. L’applicazione meccanica, non riflettuta, di schemi comportamentali, può sortire effetti controproducenti: questo il significato dell’uccisione del soldato Lazzari, allontanatosi senza permesso e rientrato senza conoscere la parola d’ordine per ottenere l’ingresso. Il risultato di un’omologazione passiva alla vita e alle regole che disciplinano il recinto di sicurezza dell’Io è ottenere la conseguenza, in termini figurati narrativi, di sparare a vista su chiunque sia fuori della norma di riferimento. Buzzati dipinge questo esito nella narrazione con gli inevitabili tratti del grottesco, dove l’umanità profonda si smarrisce disintegrata dalla chiusura nelle regole. Il falso allarme che colpisce la Fortezza Bastiani causato da militari estranei, in realtà amici, e non nemici, intervenuti a beneficio di operazioni di delimitazione dei confini, falso allarme che ha al centro protagonista nel testo buzzatiano il colonnello Filimore, si ricopre interamente di tratti pratici umoristici pirandelliani. Attraverso la morte ulteriore, improvvisa e imprevista, del tenente Angustina lo scrittore veneto sottolinea il modo in cui in una comune esistenza, appartata e tutto sommato anonima, priva di spunti di eroismo (in senso lato), l’evento più significativo alla fine risulti apparire la morte: è questa un’idea nel complesso heideggeriana, che fa della morte un inveramento della vita a cui darebbe un senso nel momento in cui apre l’Io alla Totalità.
Il resto sarebbe varia anticamera all’annichilimento, tuttavia da viversi per Heidegger non rinunziando a scegliere una ben specifica vocazione nell’esistenza individuale. Una categoria heideggeriana che Buzzati rileva nella sua creazione del romanzo è “il-mondo-della-vita”. E la connette a una dicotomia esistenziale trasposta nella sua opera: “speranza/scelta” il colloquio tra il tenente Drogo e il maggiore Ortiz dopo la scomparsa di Angustina ripropone queste due dimensioni di relazionarsi all’esistenza (all’essere-nel-mondo, nel mondo-della-vita) nelle forme simboliche buzzatiane: introversione e speranza nelle immagini del fortilizio, una vita di attesa, statica, non attiva; estroversione e scelta nell’altra imago della città, un’esistenza più intraprendente, dinamica, la quale sfida la mediocrità dell’immobilismo attendista (producente la “noia”). Giovanni Drogo dopo aver svolto quattro anni di servizio ottiene una licenza per tornare a casa. Ma nel suo ambiente cittadino si sente ormai un pesce fuor d’acqua. Tutti, anche la madre in famiglia, gli sembrano essersi velati di un distacco umano dalla sua persona. Egli inoltre non riesce più a recuperare neanche lo strato edonistico della vita. Ogni cosa gli appare rivestirsi di una pirandelliana insensatezza. Neppure l’amica Maria riesce a promuovere il recupero di un’autentica dimensione: ciascun atto si mostra inaridito e distaccato, quasi fosse mera formalità esistenziale; un vuoto fra lui e gli altri che è stato scavato dal tempo e dalla distanza. Giovanni non riesce ad attuare quello che Heidegger definisce dis-allontanamento. In aggiunta, a causa di questioni burocratiche, non gli è possibile richiedere un trasferimento dalla Fortezza Bastiani: davanti a lui si prospetta il dilemma se abbandonare per intero la carriera militare o rimanere un prigioniero sui generis narrativo buzzatiano di quella monotona forma di vita già esperita. Il protagonista de “Il deserto dei Tartari” rimane intrappolato nell’allegorica piazzaforte. Il colloquio che ha, ritornato, col maggiore Ortiz indica al di là della superficie scenica la rievocazione di un’altra categoria heideggeriana da parte di Buzzati: la gettatezza, l’essere-gettati-nel-mondo. Nessuno decide a monte della propria esistenza il suo trovarsi-nel-mondo, così come l’essere distaccato alla Fortezza Bastiani emerge alla fine del romanzo una decisione superiore inderogabile. Comunque ciò che è venuto a mancare a Drogo è stata la volontà-di-scegliere, di modificare in maniera attiva la sua esistenza: «Il colloquio col generale, giù in città, gli aveva lasciato poche speranze di trasferimento e brillante carriera, ma Giovanni capiva pure di non poter restare tutta la vita tra le mura della Fortezza. Presto o tardi qualche cosa bisognava decidere. Poi le abitudini lo riprendevano nel solito ritmo e Drogo non pensava più agli altri, ai compagni che erano fuggiti in tempo, ai vecchi amici che diventavano ricchi e famosi, egli si consolava alla vista degli ufficiali che vivevano come lui nel medesimo esilio, senza pensare che essi potevano essere i deboli o i vinti, l’ultimo esempio da seguire. Di giorno in giorno Drogo rimandava la decisione, si sentiva del resto ancora giovane, appena venticinque anni. Quell’ansia sottile lo inseguiva tuttavia senza riposo». L’essere-nel-tempo, heideggeriana connotazione del dasein (esserci, uomo), consuma il soggetto a guisa della fiamma con una candela: «Drogo sentì più acuta la solita ansia, invano cercava di scacciarla pensando alla propria giovane età, ai moltissimi anni che gli rimanevano. Il tempo, inesplicabilmente, si era messo a correre sempre più veloce, inghiottiva uno sull’altro i giorni. Bastava guardarsi attorno che già scendeva la notte, il sole girava di sotto e ricompariva dall’altra parte a illuminare il mondo pieno di neve. Gli altri, i compagni, sembravano non accorgersene. Facevano il solito loro servizio senza entusiasmo, si rallegravano anzi quando sugli ordini del giorno compariva il nome di un mese nuovo, quasi avessero fatto un guadagno. Tanto di meno da passare alla Fortezza Bastiani, calcolavano. Essi avevano dunque un loro punto di arrivo, mediocre o glorioso che fosse, di cui sapevano accontentarsi. Lo stesso maggiore Ortiz, ch’era già sulla cinquantina, assisteva apatico alla fuga delle settimane e dei mesi. Egli aveva ormai rinunciato alle grandi speranze e “Ancora una decina d’anni” diceva “poi me ne vado in pensione”. Sarebbe tornato alla sua casa, in una antica città di provincia – spiegava – dove vivevano alcuni suoi parenti. Drogo lo guardava con simpatia, senza riuscire a capirlo. Che cosa avrebbe fatto Ortiz, laggiù fra i borghesi, senza più nessuno scopo, solo? “Ho saputo accontentarmi” diceva il maggiore accorgendosi dei pensieri di Giovanni. “Anno per anno ho imparato a desiderare sempre meno. Se mi andrà bene, tornerò a casa col grado di colonnello.” “E dopo?” domandava Drogo. “E dopo basta” fece Ortiz con un sorriso rassegnato. “Dopo aspetterò ancora... pago del dovere compiuto” conchiuse scherzosamente. “Ma qui, alla Fortezza in questi dieci anni, non pensa che...” “Una guerra? Lei pensa ancora a una guerra? Non ne abbiamo avuto abbastanza?”».
L’illusoria aspettativa di un cambiamento, di un deus ex machina, continua ad accompagnare nonostante frustranti delusioni la vita al forte di Giovanni Drogo, il quale possiede della sua condizione esistenziale una perfetta consapevolezza: «Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce ch’è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai. Di giorno in giorno Drogo sentiva aumentare questa misteriosa rovina, e invano cercava di trattenerla. Nella vita uniforme della Fortezza gli mancavano punti di riferimento e le ore gli sfuggivano di sotto prima che lui riuscisse a contarle. C’era poi la speranza segreta per cui Drogo sperperava la migliore parte della vita. [...] Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se uno soffre il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita». Il temuto pericolo dal Nord, d’altro canto auspicato e sollecitato in cuore da ciascun militare della Fortezza Bastiani, sebbene siano trascorsi numerosi anni non ha ancora luogo. Anzi l’inesorabilità del tempo pone Drogo, ora capitano, a rivivere a parti invertite nel corso di un episodio, in base a uno sconcertante rituale creato dal destino, il suo arrivo alla fortificazione. Ormai l’apatica rassegnazione si è impadronita di lui, e il fato ha voluto farsene beffa facendogli ripercorrere grottescamente il suo primo giorno, quando avviatosi a prendere servizio, incontrò sul cammino l’allora capitano Ortiz. Giovanni si scopre dunque divenuto un rottame esistenziale formatosi nel tempo, tuttavia ancora imbevuto dell’illusione: «Assurdo, refrattario agli anni, si conservava in lui, dall’epoca della giovinezza, quel fondo presentimento di cose fatali, una oscura certezza che il buono della vita fosse ancora da cominciare». E finalmente nel momento in cui arrivano i nemici dal Nord egli è costretto, ammalato, ad allontanarsi dalla piazzaforte: «Il tempo soffiava; senza curarsi degli uomini passava su e giù per il mondo mortificando le cose belle; e nessuno riusciva a sfuggirgli, nemmeno i bambini appena nati, ancora sprovvisti di nome». Il protagonista buzzatiano perisce in un esistenziale confronto con la propria morte a testa alta, confronto quale esistenzialistico saliente evento personale: costituisce questo l’ultimo argomento heideggeriano che il creatore del romanzo tocca, a testimonianza della sua partecipazione a quel coro di inquietudine che caratterizzò la prima metà del ’900, di cui fece parte ad esempio Camus (il quale negli anni ’50 riprese un’opera buzzatiana allo scopo di farla mettere in scena per il teatro in Francia). Dino Buzzati fu in passato spesso ricondotto dalla critica a categorie kafkiane, ma l’impressione scaturente da “Il deserto dei Tartari” è che egli riprenda una radice pirandelliana, la quale per certi versi lo pone nel campo di riflessione condiviso da Camus. Il vincitore del Premio Nobel Luigi Pirandello, pittore anche lui, fu sensibile al pensiero tedesco2, perciò niente di strano che il suo originale epigono di valore rifletta qui l’esistenzialismo di Heidegger. La cultura francese del dopoguerra, imbevuta di motivi esistenzialistici, non prese sottogamba la produzione buzzatiana. Nel testo esaminato compare tra l’altro altresì un quid di foucaultiano ante litteram nel concepire una struttura architettonica nella veste di strumento oppressivo da parte del mondo dominante della tecnica, del potere.


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche


mercoledì 22 gennaio 2020

SPETTROGRAFIA DE “IL FU MATTIA PASCAL”

di DANILO CARUSO

“Il fu Mattia Pascal” uscito nel 1904 (in un primo momento a puntate sul periodico “Nuova Antologia”, e quindi in forma integrale grazie alla casa editrice Fratelli Treves) è una delle opere più famose della letteratura mondiale. Romanzo scritto da Luigi Pirandello (1867-1936; autore cui fu tributato il Premio Nobel nel ’34), il suo contenuto mostra una ricchezza di sfumature di pensiero non indifferenti. Alla mia lettura notai la vicinanza pirandelliana, non strana data la sua giovanile formazione di studio pure in Germania, a impostazioni della filosofia tedesca. La sensibilità creativa lo rende avvicinabile a posteriori all’esistenzialismo. In un brano egli rivela un’affinità con l’estetica di Kant rielaborando il concetto del “bello” in funzione esistenzialistica: «Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini chesso evoca e aggruppa, per cosi dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nelloggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo dimmagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nelloggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, laccordo, larmonia che stabiliamo tra esso e noi, lanima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi». In un altro passaggio del testo anticipa una tematica heideggeriana (la polemica contro il finale controllo totalitario della tecnica sulla vita umana): «“Oh perché gli uomini,” domandavo a me stesso, smaniosamente, “si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà luomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente darricchire lumanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole?” […] La scienza, pensavo, ha lillusione di render più facile e più comoda lesistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando io: “E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica?”». Altre rilevazioni critiche corroborano le impressioni indicate sinora e le aprono alla volta di altri riferimenti. Il cambio di personaggio sociale nel corso della narrazione operato dal protagonista, da Mattia Pascal a Adriano Meis, evoca in maniera forte Edmond Dantes; sicché il primo, premiato da una buona sorte riparatrice, appare un distopico Conte di Montecristo nel pessimistico universo intellettuale di Pirandello. A simile ascendenza letteraria di forma si contrappone una precorritrice intuizione sostanziale abbozzata proprio nel cap. VIII: la costruzione di un nuovo passato personale di Mattia Pascal mi ha ricordato Philip Dick, e un suo racconto in particolare: “Ricordi in vendita”. L’essere sociale dell’uomo è un essere-nel-tempo giacché attraverso di esso transitano le informazioni e si sedimentano. L’identità personale che gli altri rilevano da noi proviene da un’esperienza temporale. Ma sia Dick che Pirandello demoliscono in interiore quanto sembrava un’acquisizione salda e immutabile, quella del passato. Ciò non relativizza tuttavia l’essere dell’Io, ma testimonia che il meccanismo fenomenico delle relazioni può realmente trasformarsi in distopia, e fare del mondo un carcere dell’anima. Non è un caso l’amara e iperbolica constatazione di Mattia all’inizio del cap. VII: «Si sta meglio vicini alla terra; e – sotto – fors’anche meglio». Tratti del pessimismo di Leopardi e Schopenhauer compaiono nell’opera. Il protagonista, Mattia, scopre se stesso quale epifenomeno (sociale, ontologico) della “voluntas”, e perviene a una “noluntas” nel suo mutarsi nel “fu Mattia Pascal”: questa sua lucida tragica coscienza della sostanza del mondo dei fenomeni lo ha proiettato fuori del “fenomenico” nel mondo metafisico della vita radicale (libido freudiana = voluntas schopenhaueriana): «Il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?».
Ecco lo sfondo filosofico di una dinamica caratteristica delle creazioni pirandelliane: dove il reale visibile si tinge di male, e tutto ciò che appare “oltre” ha il sapore di via di fuga, di distopica felice isola d’esilio. Mattia Pascal non è un personaggio letterario estraneo alla gamma concettuale cui appartiene John “il selvaggio” dello huxleyano “Brave New World” (romanzo sopra il quale ho scritto un saggio1). Dalla lettura de “Il fu Mattia Pascal” mi è rimasta l’idea che il romanzo possa ascriversi pure al genere distopico. Mi ha colpito in Pirandello quella che ho definito nelle mie riflessioni una “dialettica ultranegativa”. Se Adorno apprezzava il “negativo razionale” hegeliano in vista di qualcosa che potesse giovare, Pirandello alla fine passa a un “ultranegativo distopico” il quale rende prigionieri i suoi personaggi nel mondo fenomenico. Voglio chiarire meglio queste tappe letterarie indicandone le “figurazioni”: momento tetico, Mattia Pascal (in sé); negativo razionale, Adriano Meis (fuori di sé); ultranegativo razionale (in sé e per tutti), fu Mattia Pascal. L’ultima fase rappresenta uno svuotamento, una sorta di “individuazione junghiana” distopica. A proposito di connotati distopici metto in evidenza due brani del romanzo. Il primo, evocante il clima sociopolitico dell’allora recente periodo crispino-umbertino, potrebbe evocare il tema del modello totalitario: «Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d’esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà». In relazione a questo seguente secondo passaggio, mi è balenata in mente la singolare somiglianza con delle scene del film su “Arancia meccanica”. Tant’è che tra me e me dicevo di quest’ultimo estratto: “arancia meccanica pirandelliana”: «Passando, poco dopo, per Tordinona quasi al bujo, intesi un forte grido, tra altri soffocati, in uno dei vicoli che sbucano in questa via. Improvvisamente mi vidi precipitare innanzi un groviglio di rissanti. Eran quattro miserabili, armati di nodosi bastoni, addosso a una donna da trivio. Accenno a quest’avventura, non per farmi bello d’un atto di coraggio, ma per dire anzi della paura che provai per le conseguenze di esso. Erano quattro quei mascalzoni, ma avevo anch’io un buon bastone ferrato. E vero che due di essi mi s’avventarono contro anche coi coltelli. Mi difesi alla meglio, facendo il mulinello e saltando a tempo in qua e in là per non farmi prendere in mezzo; riuscii alla fine ad appoggiar sul capo al più accanito un colpo bene assestato, col pomo di ferro: lo vidi vacillare, poi prender la corsa; gli altri tre allora, forse temendo che qualcuno stesse ormai per accorrere agli strilli della donna, lo seguirono. Non so come, mi trovai ferito alla fronte. Gridai alla donna, che non smetteva ancora di chiamare ajuto, che si stesse zitta; ma ella, vedendomi con la faccia rigata di sangue, non seppe frenarsi e, piangendo, tutta scarmigliata, voleva soccorrermi, fasciarmi col fazzoletto di seta che portava sul seno, stracciato nella rissa». Infine non mi appare affatto fuor di luogo chiudere la mia analisi con un richiamo alla canonica categoria dell’“umorismo pirandelliano”, vale a dire ricordare quel “sentimento del contrario” il quale fa prendere consapevolezza dei limiti in cui le persone possono essere intrappolate apparendo grottesche nel loro cercarvi un rimedio: «Insieme con la Pantogada e la governante era venuto un certo pittore spagnuolo, che mi fu presentato a denti stretti come amico di casa Giglio. Si chiamava Manuel Bernaldez e parlava correttamente l’italiano; non ci fu verso però di fargli pronunciare l’esse del mio cognome: pareva che ogni volta, nell’atto di proferirla, avesse paura che la lingua gliene restasse ferita.
– Adriano Mei, – diceva, come se tutt’a un tratto fossimo diventati amiconi.
– Adriano Tui, – mi veniva quasi di rispondergli».


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche

sabato 11 gennaio 2020

“RELIGIONE/ECONOMIA”: IL DIO DENARO?

di DANILO CARUSO

Nel corso del mio impegno di studioso indipendente, mi sono dedicato alla conoscenza della tradizione giudeocristiana e del capitalismo, pervenendo a una posizione diversa da quelle marxiana e weberiana circa i legami fra religione ed economia in Occidente. Nel caso specifico del fenomeno capitalistico, riguardo al culto nella prima si parla di sovrastruttura di facciata, mentre nella seconda si ribaltano i termini ponendo la causa nell’attivismo di matrice (nevrotica) religiosa e l’effetto nel capitalismo. A mio avviso Marx e Weber non sbagliano, ma sono parziali: da ciò la loro collocazione reciproca antitetica. Dai risultati delle mie ricerche e riflessioni emerge alla base di Ebraismo e di intraprendenza economica un “attivismo indifferenziato”, da cui si sviluppano due binari paralleli i quali portano alla suddetta tradizione religiosa e alla realtà capitalistica. Inter se corre una relazione di “sincronicità”, non di causa-effetto: tuttavia ciò non nega la possibilità che si possano influenzare a vicenda. I due pensatori ricordati hanno entrambi ragione: parlano solo da prospettive differenti, però non inconciliabili nel mio modello. L’attivismo indifferenziato si sostanzia in ambito religioso o in quello socioeconomico in livelli di primo grado autentici a seconda dei casi. Esso rifiuta il primato globale dell’agricoltura di sussistenza a beneficio del rischio d’impresa ad personam. Poiché il mondo agricolo è espressione della Madre Terra, e dunque possiede una connotazione “femminile”, ciò che si presenta come alternativo si configura come “maschile” e misogino: Abele preferito a Caino, la donna origine del male nel mondo. Quanto credo, da junghiano, è che l’attivismo indifferenziato di cui parlo sia una nevrosi, una medaglia con due volti: religiosità giudaicocristiana e intraprendenza capitalistica. La verità è la medaglia, poi il resto è un “testa o croce” rilevabile solo a posteriori: gli effetti nevrotici sono imprevedibili. Esaminiamo un fenomeno particolare. Ogni giorno, con l’eccezione del Sabato santo, la Chiesa cattolica celebra messe in tutt’Italia in pubblici luoghi di culto. In questi, durante la funzione, i fedeli donano del denaro. Tale libero transito monetario non è occasionale, bensì ripetuto, e ha luogo per giunta in uno spazio esentato dall’imposizione fiscale sugli immobili da parte dello Stato italiano. Gli aspetti della non tassazione e del costante passaggio di ricchezza non controllata sembrano giuridicamente in contraddizione nel momento in cui si sottolinea che non sono inerenti a un ambito privato: non si tratta di un semplice regalo in casa di un amico o per strada a chicchessia. Parrebbe incostituzionale (art. 53 della Costituzione) ignorare questo stabile fenomeno producente accumulo di denaro giacché l’offerta di soldi nel corso della messa avviene all’interno di uno spazio pubblico preciso e identificato nella sua tipologia. Ogni sorgente di reddito costante di simile configurazione non si discosta molto dalla rendita commerciale di un negozio (il quale si trova parimenti aperto al pubblico, però pagante la tassazione immobiliare sul suo locale e quella sugli utili). Supponiamo, per assurdo, che il Vaticano riprenda a vendere le indulgenze, come faceva nei secoli scorsi: lo Stato tasserebbe quei guadagni come reddito d’impresa, e ne maggiorerebbe il prezzo mediante l’aggiunta dell’IVA? Tra una chiesa in cui si riceve l’ostia consacrata e si donano dei soldi, e la borsa dei valori (dove si svolgono commerci di prodotti finanziari in cambio di denaro) esistono differenze di forma? Nella celebrazione eucaristica cosiffatta si simula un commercio in deroga alla tassazione (vedansi le vecchie indulgenze)? In fin dei conti da entrambe le realtà paragonate si pretende di fare “acquisti” volti al benessere, spirituale e materiale rispettivamente. Non tassare una chiesa (a scapito di un principio di equità di trattamento), in quanto edificio di pubblico culto, sembra rafforzare quel meccanismo contraddittorio evidenziato, dove l’ipotesi di abuso della credulità popolare finalizzato all’induzione di dono del denaro potrebbe essere un ulteriore tema di valutazione giurisprudenziale. La promozione che l’emittente televisiva di Stato italiana garantisce inoltre ogni domenica mattina a beneficio della religione cattolica, ufficiale e unica di Città del Vaticano, un Paese straniero non comunitario (che peraltro è una non democratica monarchia assoluta elettiva) fornisce nuovi spunti di osservazione a causa di possibile illiceità, poiché la cosa si configurerebbe quale discriminatoria azione a svantaggio di altri culti (che dovrebbero in teoria pagare la “pubblicità”, in senso lato, televisiva) e a favore di chi nei suoi “pubblici” luoghi riesce a ottenere quella succitata ricchezza poi non tracciata, e non tassata (né a livello immobiliare, né tanto meno su quello della raccolta di liquidità). A tutti i fedeli cattolici non mancherebbe un canale televisivo su cui vedere la messa, vaticano o privato. Il fatto che lo Stato si sbilanci in simili modi evocati a vantaggio di una determinata religione promuovendone la diffusione non appare un esempio d’imparzialità: la Repubblica italiana poi non si mostra molto laica se nei pubblici uffici c’è sempre appeso un crocifisso e se nelle sue scuole si prevede l’ora di religione cattolica. Anche questi dettagli, più che formare il rispetto di una tradizione, rappresentano de facto un complesso propagandistico discriminatorio delle diversità (come avviene in tutti quegli altri contesti operanti sulla stessa falsariga): difficile definire rispetto di una tradizione popolare l’emarginazione pressoché radicale dei rimanenti dall’aspetto promozionale nel momento in cui costoro vengono privati di parallele gratuite possibilità; il desiderio di rafforzare una tradizione, mantenerla, per qualsivoglia motivo, con strumenti e privilegi statali creerà tensioni. Chi vuole l’insegnamento della religione cattolica, vada al catechismo in chiesa. Chi vuole l’esposizione di simboli religiosi cristiani, esponga a casa sua o addosso a sé. E ciò vale per tutte le religioni, imitando il modello francese. Libera Chiesa in libero Stato: uno dei più grandi errori del fascismo, assieme alle leggi razziali e all’alleanza col nazismo, è costituito dai Patti Lateranensi. Avere buttato al vento l’emancipazione liberale, ottenuta nel periodo postunitario, dall’influenza cattolica sulla politica italiana, riportò l’orologio della storia indietro, al periodo prerivoluzionario francese. 


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche


Per approfondimenti: