di DANILO CARUSO
“A sucessora [La succeditrice]” è un
romanzo pubblicato nel 1934, opera della scrittrice brasiliana Maria Carolina
Nabuco de Araújo (1890-1981), la quale discendeva da una famiglia di grandi
latifondisti e notevoli partecipanti alla vita politica in Brasile. Da ragazza
stette in Europa e visse negli USA. A questi dedicò una sua monografia,
pubblicata nel 1967, intitolata “Retrato dos Estados Unidos à luz da sua
literatura”, a proposito della quale colgo l’occasione di riportare opportuni brevi
elementi in vista della mia analisi, elementi illuminanti riguardo alla forma
mentis di Carolina Nabuco. Lei apprezza con intensità la società statunitense
cresciuta dai semi linguistici, ideologici e pratici gettati dai primi
colonizzatori inglesi e dalla religione cristiana puritana, una società che ha
tenuto testa al pericolo marxista. La storia de “A sucessora” ruota intorno al
personaggio di Marina. Costei è una donna ventenne che ha occhi verdi e capelli
castani. Possiede una larga passione per la lettura dei libri umanistici, i
quali l’hanno posta un gradino più in alto nella sua giovane vita rispetto alle
frivole coetanee. Se da un lato ha provato il disagio a adeguarsi a compagnie femminili
leggere e mondane, dall’altro in un contesto maschile di discussione impegnata
e impegnativa otteneva successo. Non costituisce roba di tutte le ragazze,
neanche oggigiorno, mettere in campo simili qualità intellettuali, né persino
adottare un personale ex libris: “semper fidelis”, quello di Marina, scelto per
il fatto che ella giudicasse la propria seria costanza l’aspetto cardine del
suo carattere. “Semper fidelis” è dal 1883 il motto ufficiale della MARINA
degli USA (“United States Marine Corps”). In portoghese esiste l’aggettivo “marino/marinho”
(dal latino “marinus”), il sostantivo femminile “marinha” indica pure una
flotta navale. Ne “A sucessora” la protagonista conosce nell’abitazione di
campagna della sua benestante famiglia, per caso, il recente vedovo Roberto
Steen, un uomo di 35 anni. I due si innamorano a primo colpo e si sposano subito.
Lui esce da un matrimonio, durato 14 anni, senza figli. La prima moglie, Alice,
è venuta a mancare prematuramente in seguito a malattia. Gli eventi narrati nel
romanzo si collocano negli anni pacifici fra le due novecentesche guerre
mondiali. Nella casa di Roberto, il quale rappresenta l’esponente di una delle
famiglie più ricche del Brasile, casa in cui i novelli sposi risiedono, si
trova un apprezzato dipinto della figura di Alice, ritratta nel suo fulgore.
Alice, nella sua breve vita, era stata un’ammiratissima primadonna. I suoi modi
di dire e di fare, il suo essere, suscitavano vivi e profondi plauso, consenso
e ammirazione da parte del sistema planetario delle persone che le ruotava
attorno. Tutto questo insieme di amici e parenti della vecchia famiglia Steen
mette Marina sotto esame, nella curiosità e nell’intenzione di vedere e
valutare se la nuova sposa sia all’altezza di quella scomparsa. Questa
situazione getta Marina in un agone di competizione con Alice. Il dipinto di
quest’ultima diventa per la prima ragione di letterale incubo. Marina viene
gradita per la sua bellezza, però scopre che le frequentazioni di Casa Steen,
tra cui la cognata Germana (sorella di Roberto), sono composte di persone non
amanti di discorsi i quali non siano di tono mondano e leggero. Questi amano il
culto dell’edonismo, dell’estetica, del divertissement. E Marina, proveniente
dal mondo del latifondo con la sua tradizione signorile, si vede disorientata
al cospetto della vita borghese urbana. Tali due mondi si misurano ne “A
sucessora”: il primo in avanzata condizione di decadenza dopo l’abolizione
brasiliana della schiavitù nel 1888, il secondo nella sua fase inarrestabile di
crescita espansiva tecnologica e industriale. Il tentativo di auspicare una
mediazione tra i due si percepisce nel romanzo. Qui si tesse l’elogio del
carattere di Miguel, cugino di Marina, innamorato di lei, con cui egli fu
fidanzato prima che ella rompesse questo fidanzamento allo scopo di sposare
Roberto. Miguel è un giornalista che rifiuta l’inclinazione razionalista,
amante del connotato sentimentale e passionale tipico di un oggi non del tutto
tramontato modello di uomo latinoamericano. Egli preferirebbe porsi nella veste
di stimolatore degli istinti della massa piuttosto che di educatore e
modellatore. La sua vicenda, culminante nella decisione di collocarsi ai
margini in una società oramai richiedente migliori dosi di ordine, viene
presentata dall’autrice brasiliana del testo analizzato come un insuccesso. Qua
non sono d’accordo sui valori assegnati alle parti della problematica. L’impulsivo
uomo latinoamericano del vecchio stile, per me, non costituisce un modello
positivo. Il macho e il machismo, l’azione predominante su riflessione e ratio
in virtù di un’esclusiva conduzione emotiva, ai miei occhi, rappresentano
deragliamenti. Io sono razionalista, e giudico inopportuno lasciare la guida della
biga platonica ai cavalli. Di simile mondo rurale di cui Carolina Nabuco
lamenta il tramonto ci sono elementi che non mi piacciono. Il primo è il
suprematismo dei bianchi discendenti dei colonizzatori portoghesi, il quale non
è stato archiviato integralmente. Si percepisce un’atmosfera di coabitazione
forzata con i paralleli discendenti degli indigeni e degli altri emigrati di varie
etnie. In alcuni passaggi del romanzo, pochi ma significativi, questi vengono
disprezzati a motivo della loro arretratezza e ignoranza, addirittura a costoro
si attribuiscono comportamenti (in non giustificata e poco chiara guisa) i
quali li disegnano (con obiettività forzata) quali personaggi negativi. Ciò non
accade a carico dei bianchi civilizzati, avvolti comunque da un’aura di
superiorità. Carolina Nabuco era figlia di un politico liberalconservatore,
abolizionista della schiavitù in Brasile a suo tempo, timoroso, a quanto si
tramanda dal passato, del pericolo di una africanizzazione della nazione
brasiliana. Il di ella romanzo registra ombre e contraddizioni. Queste sono
riconducibili a una non tanto dissimulata apologia della tradizione cattolica
bianca portoghese. Vale la pena non trascurare che un “Catecismo historiado
(Doutrina cristã para a primeira comunhão)” di questa autrice fu dato alle
stampe nella sua Patria nel 1940, e ristampato in altre tre edizioni sino al
1957. Di Marina si apprezza ne “A sucessora” la sua “pulita” linea di
discendenza. Di tale connotato della, alla fine, vittoriosa protagonista,
rimane più l’apologo che la condanna. Quando la scrittrice brasiliana ha
affrontato nel romanzo il tema della convivenza multietnica in Brasile,
mostrando una tagliente sensazione di sgradimento nei riguardi del fenomeno
(«Una sfilata senza fine. Razza senza bellezza [...] curiosamente mista. Tipi
opposti, che si incrociavano con indifferenza, senza rendersi conto dei
contrasti che presentavano, uniti, nel nuovo mondo, solo dallo spirito
nazionale, in modo lento e solido formatosi»), ha tra l’altro parlato dei
«grandi nasi di Ebrei». Tale dettaglio inserito nel testo assieme al concetto
di «raça» negli anni ’30, gli anni di ascesa del nazismo tedesco, non ci appare
a lunga distanza delicato né può passare inosservato o sfuggirci. Parlare di
«narizes grandes de judeu» equivale a mostrare un topos derivante dall’input
dell’originario tradizionale antisemitismo del Cristianesimo. Questa eco del
Cattolicesimo rilevata fa trasparire il condizionamento di una tradizione
religiosa, la quale viene più ossequiata che criticata. Marina e sua madre
escono da una rigida formazione educativa cattolica, tuttavia (di fronte alla
loro chiusura) nel romanzo brillano sempre alla volta della meta finale.
Roberto, altresì, è un cattolico praticante. Pare di trovarci ne “I promessi
sposi”, con Agnese, Lucia e Renzo. Del discutibile Cattolicesimo, non soltanto,
brasiliano, accanto a quella macchia antisemita testé segnalata, nel romanzo
possiamo osservare una festa religiosa dove si svolge lo sgozzamento di un pupazzo rappresentante una strega. Il che
costituisce chiaro indice, quantunque in un clima di divertissement, di
tragiche memorie di persecuzioni passate, le quali proprio la modernità
illuministica ha costretto a non praticare più con una prosecuzione cruenta a
scapito di donne reali. Tale Brasile di Carolina Nabuco (la quale nella propria
vita rimase nubile) da fondarsi, secondo un’accolta prospettiva manzoniana ne
“A sucessora”, sopra una tradizione cristiana resa meglio adeguata alle
circostanze della contemporaneità, però non gran che a livello normativo meno
asfissiante, a me non piace. Rammento l’elogio del machismo su evocato, ma non
manca pure uno spirito antifemminista contrapposto a quella nuova storica
società meglio aperta alla laicità. Viene detto nel romanzo: «Oggi nessuno
vuole sapere nulla che possa ostacolare la libertà. Le belle donne vogliono
essere in grado di mostrare anche la loro ignoranza senza costrizione». Ciò è
affermato in contrasto alla cattolica Marina, la campionessa, incensurata, del
testo in esame, la quale prega regolarmente e cammina col rosario. L’antipatia
di Carolina Nabuco nei confronti di un mondo più libero e meno asservito alla
dottrina cristiana si rivela palpabile all’interno di un’impalcatura narrativa
che propone di abbandonare solo l’improponibile della avita tradizione
cattolica brasiliana: schiavismo, pratiche persecuzioni religiose. Ma per il
resto la scrittrice brasiliana sembra dirci che il suprematismo bianco e il
primato cattolico permangono dei valori da non accantonare: indigeni, Giudei e
neri restano comunque esseri da tenere a distanza nel novero del nuovo Brasile
borghese. Anche se tramonta il machista latifondo cattolico, a torto o a
ragione, l’autrice del libro pare dirci, non poi in maniera così tanto velata,
che la rinnovata società brasiliana deve proseguire dentro i valori imposti
dalla Chiesa, della quale ricordo in America Latina la precedente lunga
diffusione del tramontato strumento razzistico de los estatutos de limpieza de sangre. Norme protonaziste provenienti
dalla quattrocentesca cattolicissima Spagna, dove presero di mira, con
obiettivo discriminatorio, sulla base di un (ingiustificabile!) parametro
biologico fondato sulla purezza del
sangue nella linea ereditaria familiare cristiana, in primis Ebrei e a
seguire i neri e i musulmani (tutti giudicati di pericoloso sangue malsano), si
radicarono pure in Brasile, grande colonia portoghese sudamericana. Qua
trovarono applicazione all’interno della società coloniale e rimasero in vigore
sino al 1773. L’Inquisizione cattolica fu per secoli operativa sull’intero
territorio dell’America Latina in seguito a riflesso spagnolo e portoghese. In
Brasile fu attiva tra ’500 e ’700: a Belo Horizonte dal 2012 esiste il Museo
dell’Inquisizione brasiliana, e ogni 31 marzo le vittime di irragionevoli
persecuzioni vengono commemorate. La Chiesa cattolica non ha mai sciolto il suo
istituto di indagine, bensì varie volte cambiatogli denominazione: dal 1965
quell’istituzione che fu l’Inquisizione si chiama Congregazione per la dottrina
della fede. L’Inquisizione portoghese fu abolita con legge statale nel 1821. Il
Brasile si proclamò indipendente dalla madrepatria nel 1822, nel 1889 da
monarchia con religione di Stato cattolica si trasformò in una repubblica
federale proiettata verso una salubre migliore laicità. In Portogallo nel 2020
è stata istituita la Giornata nazionale della memoria per le vittime
dell’Inquisizione (31 marzo). Gli anni ’30 brasiliani furono un’epoca
irrequieta in cui il neonato regime dittatoriale e conservatore di Getúlio Vargas
arginava le pressioni politiche emergenti da destra e da sinistra (al pari
della Chiesa già in conflitto con liberali e marxisti). Nel 1931 fu terminato
il monumentale “Cristo redentore” di Rio de Janeiro (allora capitale federale).
È in tale clima che esce “A sucessora” con la sua pervasione cattolica. Perciò
Marina e Roberto riecheggiano Renzo e Lucia, e d’altro canto la morte di Alice
si può paragonare a quella di Don Rodrigo a dispetto delle rispettive
collocazioni cronologiche narrative. La scomparsa della prima moglie di Roberto
viene in modo molto discutibile esibita come “provvidenziale” al pari di quella
dell’antagonista manzoniano. “A sucessora” risente di letture cattoliche
dell’autrice. Allorché Miguel bacia Marina da sposata si mostra una suggestione
dantesca proveniente da Paolo e Francesca. Con l’eccezione che Marina, la quale
sul momento è stata condiscendente, ha poi subito chiuso la faccenda
liquidandola quale “peccato” e confessandosi con un sacerdote, inoltre allontanando
il cugino stabilmente. Ecco il potere “salvifico” del Cattolicesimo, in un
episodio di cui Roberto non avrà mai notizia. La figura di simile marito si
mostra nel testo parecchio evanescente, e non si rivela un caso che Marina
gradisca del consorte soprattutto il lato esteriore del vir: Roberto non
possiede, o non viene messa in scena, una profondità di homo, la quale
nonostante tutto, possiede un po’ meglio il sentimentale Miguel. La cattolica
Marina è in maniera patologica ossessionata da Alice e dal quadro che la
rappresenta. Nel motivo del dipinto espressione di mostruosità, di qualcosa di
terrificante, appare suggestione wildeiana. Il romanzo indica coordinate
psicanalitiche in direzione dell’inquadramento clinico della personalità di
Marina in guisa esplicita, ma non le porta a compimento. Lascia questo
confronto fra le due donne, la morta e la viva, avvolto nel torbido. Come se ci
fosse veramente una sfida, una prosecuzione del fascino dell’azione di Alice
dall’oltretomba. Per quasi tutto il romanzo il sistema familiare di Roberto
Steen trama contro la nuova moglie e ha a capo simbolico, vicaria di Alice,
Germana, l’apologeta principale della precedente cognata. Alice diventa per
Marina un pesante complesso nevrotico persecutorio. Carolina Nabuco mette in
risalto gli effetti, non le cause del fenomeno. Marina è molto disturbata per
via dell’educazione cattolica ricevuta poiché le ha imposto una forma mentis
chiusa, al di là di quelli che possono essere i suoi pregi. La ragione della
sua sofferenza viene dunque caricata sulla “diabolica” Alice, la donna
«coraggiosa [destemida]» assetata di svaghi, presa di mira persino quando pone
in pericolo sé nel tentativo riuscito di porre in salvo un bimbo. Un atto di
per sé meritevole e di valore subisce nel testo un incomprensibile richiamo
sulla base della temerarietà. Carolina Nabuco contesta un’inversione dei ruoli
fra uomini e donne, dove le seconde assumono caratteri maschili (il coraggio,
nel caso menzionato) mentre i primi si effeminano. Di quest’ultima casistica è
exemplum un altro brano nel quale Miguel rimprovera se stesso: «Un uomo non
deve avere sensibilità [sensibilidade]». La figura di Alice assume il ruolo di
simbolo della emancipata donna moderna, rappresenta la nuova strega, la porta
dell’Inferno. L’incidente casalingo in cui Marina sta provocando, non si sa con
quanta involontarietà, l’incendio del ritratto della rivale configura, al di
fuori degli schemi narrativi di superficie, un tentativo di uccidere, di
bruciare, la strega (si tratta di un motivo già in precedenza segnalato
altrove, passaggio in cui l’evidenza era peraltro più nitida). La nuova moglie
di Roberto si prefigge di riportare il ritmo della vita attorno alla coppia
dentro i ferrei confini della morale cattolica giacché tiene presente che è
«dovere delle donne cristiane lottare contro la paganizzazione dei tempi nei
suoi sintomi manifesti». Ne pagano le spese gli amici non sposati in chiesa,
banditi al pari degli eventi nella piscina casalinga in quanto l’abbigliamento
in costume moderno ritenuto scandaloso e immorale. Non dimentichiamo che la Costituzione
del Brasile emanata nel 1891, rimasta in vigore fino al 1930, riconosceva
valido solo il matrimonio civile («A Republica só reconhece o casamento civil,
cuja celebração será gratuita»). Nell’era vargasiana il matrimonio religioso
assunse a possibilità di validità civile. È questa la Marina in marcia
attraverso la narrazione avanzante in direzione del trionfo finale: una giovane
nevrotica cattolica in relazione a cui la scrittrice brasiliana fa notare che è
il mondo sbagliato intorno a Marina, e non il contrario (dove si potrebbe
invece con equilibrio consono far notare i difetti di una modernità tuttavia da
non demonizzare, tanto meno in toto). Che la giovane donna preferisca la
compagnia dei libri e quella di persone con maturità costituisce una delle
poche cose che ammiro di Marina: neanche a me piace circondarmi di
saltimbanchi. De “A sucessora” al termine degli anni ’70 è stata realizzata in
Brasile una trasposizione scenica televisiva (ancora vivente Carolina Nabuco).
Fu nel 1983 tra le prime telenovelas ad arrivare in Italia. Me la ricordo
benissimo, sebbene fossi allora piccolo, e rammento di averla seguita sino
all’ultima puntata, la quale mi è rimasta in mente. A più di quarant’anni delle
oltre cento puntate precedenti non ricordo niente in dettaglio, però a
proposito dell’ultima puntata rammento di essere rimasto a casa allo scopo
preciso di vederla. Sopra ho parlato del quadro riproducente Alice il quale nel
romanzo stava per finire bruciato. Nella telenovela, nella puntata conclusiva,
si scopre che Alice aveva avuto, all’insaputa di Roberto, un figlio da un
amante prima che ella morisse precocemente. Il desiderio di Marina nella
narrazione scritta di trovare un difetto, una pecca, della venerata dagli altri
sopravvissuti conoscenti Alice, nella telenovela trova soddisfazione in tale
memorabile ultimo episodio, di cui non ho dimenticato che Roberto, messo alle
strette dall’evidenza di una sconosciuta Alice fedifraga, prende una specie di
torcia e dà fuoco al dipinto della prima moglie distruggendolo per sempre. La
telenovela ha consumato (in effigie) il rogo della strega, della ianua Diaboli,
non compiutosi nel romanzo, nel quale però Marina ha chiesto in preghiera che
l’abitazione dove risiedeva col marito fosse tutta divorata dalle fiamme con
dentro il ritratto temuto (ancora una volta notiamo un tema cristiano, quello
del fuoco punitore e purificatore). La fuga di Marina verso la casa originaria
materna (non ha più il padre da tempo) raffigura il desiderio di Carolina
Nabuco di un ritorno a una stagione tramontata nella quale dominava l’economia
agricola del latifondo gestito dai discendenti dei coloni portoghesi. V’è nelle
pagine di questa sezione l’evento legato all’albero preferito durante
l’infanzia della protagonista, nel corso del quale esso viene tagliato per fare
legna da un servo ignaro dell’attaccamento di Marina. Ella pensa fra sé e sé
all’indirizzo di costui che l’aveva lasciata contrariata: «Non vale la pena di
arrabbiarsi con questo stupido vicino». L’abbattimento di tale albero
costituisce allegoria della fine del regime del latifondo a manodopera servile
coatta. L’autrice brasiliana è cosciente che non si può mettere ormai indietro
l’orologio della Storia. Proietta dunque la sua disgustata protagonista del
mondo offertole dal marito non verso la reazione radicale, bensì in direzione
di una sintesi nella dialettica tra Marina e la borghesia urbana,
successivamente al superamento della protratta negativa fase critica. Marina
resta incinta. L’idea della paternità cancella tutti dubbi di Roberto di fronte
allo strano comportamento della moglie volta ad allontanarsi dal ritratto
inquietante di Alice. I due erano andati vicini a una rottura insanabile, però
adesso la maternità di lei li porta lontani in un viaggio di festeggiamento
dell’evento. Nel suo svolgimento, Marina apprende, attraverso una vecchia
conoscente di Alice, che questa de facto non fu mai in verità felice nella sua
esistenza per il fatto di non aver potuto avere dei figli. L’informazione disattiva
la nevrosi incentrata sulla prima moglie di Roberto. La salda perfezione
venerata in Alice da altri crolla davanti allo sguardo di Marina, la quale ne
coglie una discutibile dimensione di incompiutezza. L’autrice brasiliana del
romanzo ha consentito alla sua protagonista di rimuovere l’assedio del
nevrotico complesso di Alice in un modo da me giudicato poco pulito. La
maternità di Marina qua si configura infatti quale destino delle donne
cristiane, non quale possibilità biologica di ciascuna donna. Carolina Nabuco
ci sta riproponendo un principio religioso: il principale compito femminile
risiede nel fare bambini e nel prendersene cura sino all’adolescenza; in
sostituzione una vita morigerata, monacale (della scrittrice è opera una
biografia, edita nel 1957, di Caterina da Siena, santa al giorno d'oggi
scientificamente ritenuta di disturbata personalità anoressica). La cosa non mi
piace per ciò, non per via dell’altro principio che ho contrapposto
nell’antitesi. Perché notiamo in maniera nitida che Alice alla fine ne esce
sconfitta a causa del mancato soddisfacimento nel divertissement di
un’aspettativa di matrice religiosa. Sarebbe accettabile la conclusione de “A
sucessora” che le donne non puritane le quali non hanno condotto gestazioni non
sono donne compiute? Di certo, no. E non mi pare il caso di protrarmi in
merito. Se Marina ha superato la sua nevrosi – e sono d’accordo sul fatto che
la superata – è in virtù di un altro meccanismo, junghiano. Il nevrotico
complesso di Alice, cui Marina aveva aperto le porte, si allontana giacché
quest’ultima consegue l’archetipo di Madre Natura, il quale le dà l’energia di
guardare altrove e avanti. Lo schema religioso offre una pseudosoluzione.
Comunque, Marina riesce a parlare con Roberto dei suoi problemi, e il quadro va
a finire in un museo per decisione del secondo. Preferisco il finale del libro
a quello della telenovela. “A sucessora” è un romanzo noto al di là del suo
valore letterario perché assieme a un’altra più conosciuta opera di altra
autrice è stato al centro di una polemica critica dentro la quale si è
sospettata, e anche accusata, di plagio, senza che si finisse tuttavia a vie
giudiziarie, Daphne du Maurier (1907-1989) in relazione al suo celebre romanzo
“Rebecca” (uscito nel 1938, quattro anni dopo “A sucessora”). Ho letto ed
esaminato il secondo testo di questa scrittrice inglese, il quale mi ha destato
un’ottima impressione. Riguardo alla vexata quaestio io non parlerei in
assoluto di plagio, neanche se Daphne du Maurier avesse letto la precedente
opera della scrittrice brasiliana, indicata da alcuni critici quale base di
ispirazione per la creazione di “Rebecca”. La conclusione della mia analisi su
quest’ultimo testo mi spinge a credere che la sua creatrice abbia
effettivamente letto “A sucessora”, però, al contrario delle affermazioni di
questi polemici critici evocati, abbia elaborato un nuovo lavoro, originale e
di alto pregio letterario, il quale in rapporto al precedente costituisce una
sorta di “sequel dialettico”, una risposta, una replica, un’obiezione al
patrimonio ideale messo là in risalto e valorizzato da Carolina Nabuco. Secondo
me Daphne du Maurier ha operato una cosa molto intelligente, parecchio
studiata, non alla portata di tutti, ma neanche fuori del campo di
comprensibilità. Io giudico, naturalmente in linea ipotetica, nella maniera in
cui verrò a spiegare appresso, che fra “A sucessora” e “Rebecca” ci sia un
legame organico nel quale analogie per consonanza e per contrasto non siano il
risultato di coincidenze né tanto meno di plagio, bensì tessere chiave da
decodificare nell’intero mosaico della scrittrice inglese. Al principio del mio
esame di “Rebecca, nel confrontare i due testi in questione, ho avuto presto
l’impressione che ci fosse un filo tra di questi, e non molto dopo mi è apparso
un rapporto dialettico, nella guisa già accennata. Nell’analisi proseguente mi
sono poggiato sull’orientamento ideale e sulla forma mentis di Daphne du
Maurier, la quale è stata una donna di inclinazione laica e progressista, non
legata al tradizionalismo religioso (era figlia di un massone). Ciò, unito al
fatto che quando ideò “Rebecca” era intorno ai trent’anni (cioè una giovane
donna nel pieno delle energie investite nelle vocazioni giovanili), mi induce a
ritenere che la suddetta opera metta in scena un rovesciamento delle preferenze
tradizionalistiche di Carolina Nabuco e che pertanto i due lavori de facto
debbano avere necessariamente delle tangenze. Io giudico plausibile che lo
scopo di “Rebecca” nella mente della sua autrice sia stato quello di ribattere
al tradizionalismo religioso esaltato dalla scrittrice brasiliana. Penso, per
via di canali di collegamento dialettico i quali a breve illustrerò meglio, che
Daphne du Maurier abbia visto “A sucessora”, non le sia piaciuto il contenuto
ideologico reazionario, e che nel suo slancio di giovane abbia costruito un
sottile sequel di replica: un qualcosa paragonabile a una disputa fra due opere
filosofiche nella quale la seconda va a replicare e rispondere. Ho letto così
“Rebecca” dal momento che mi sono chiesto quale fosse il suo input creativo,
volendo altresì verificare se ci fossero coincidenze più o meno casuali o
addirittura un plagio. Scarto di netto tutto quanto altri critici miei
predecessori hanno in merito connesso con un’ipotesi di plagio. Mi sento di
spezzare una lancia a favore della scrittrice inglese, dunque rifiuto le
conclusioni a di lei scapito approdanti all’imputazione di imitazione indebita.
Non vedo clonazione: “A sucessora” e “Rebecca” sono due romanzi differenti,
un’opera filocattolica e una risposta nero-gialla. A mio modesto modo di
valutare non si può parlare di plagio in alcuna maniera: dietro simile scia, in
extremis e per assurdo, si potrebbero accusare di aver plagiato H. G. Wells
tutti coloro che nei loro elaborati abbiano messo una time machine e un time
traveller. Tutt’al più negli altrui panni riferendosi al nostro caso avrei
parlato di “ascendenze” e non di “plagio”. Non nego ovviamente che esistano
possibilità di plagi letterari, ma non mi pare questo all’esame l’exemplum.
Farò notare, con la migliore nitidezza possibile, come la relazione fra i due
lavori al mio vaglio sia di “tesi e antitesi” e non di “copia e incolla”. Le
analogie dinamiche, siano consonanti o contrastanti, possiedono di necessità
una loro lecita ragion d’essere in un’esposizione puntuale e dialettica di
confronto ideale: non si può replicare a un’illustrazione altrui se non la si
demolisce ripercorrendola. Daphne du Maurier, secondo me, ha prodotto in
“Rebecca” una demolizione e un ribaltamento del tradizionalismo religioso di
Carolina Nabuco, e lo ha attuato in una forma così raffinata che forse è
sfuggita, oppure se compresa non è stata presa molto bene. Procediamo dunque a
vedere simile romanzo dell’autrice inglese e a rilevare i punti cardine della
costruzione. C’è un brano che nella mia ottica analitica delineata mi ha molto
colpito e che mi è parso la serratura di tutto: «Gli uomini sono più semplici
di quanto tu immagini [...] ma ciò che accade nelle intrecciate tortuose menti
delle donne confonderebbe chiunque». Sarebbe a dire in generale a proposito del
romanzo: andate oltre un’ingannevole sensazione di plagio, scavate a fondo. È
quello che ho fatto io, accogliendo l’invito in direzione di una prospettiva
che già prima nella mia lettura avevo assunto. Tale passaggio mi è sembrato un
nulla osta. La prima cosa da chiarire adesso nel mio cammino d’esame riguarda
la protagonista anonima di “Rebecca”. Tutti sarebbero spinti ad accostarla a
Marina dell’altro romanzo. Io ritengo la cosa sbagliata: l’anonima è Alice,
Alice reincarnata in cerca di giustizia per il precedente modo di essere stata
trattata; Marina la cattolica, è Rebecca. Come, si dirà, la santa Marina
potrebbe essere rappresentata dalla fedifraga poco di buono di Rebecca? Dico
io: però Marina da sposata non ha baciato il cugino Miguel, poi salvando la
facciata e le apparenze? Una delle cose che “Rebecca” ci vuol far capire –
ipotizzo – è che dietro al vanto di cristiane virtù può stare ben altro:
Rebecca e suo cugino rappresentano Marina e suo cugino, non in un contesto di
plagio, ma di pesante critica dell’ipocrisia religiosa cristiana. Chissà quante
relazioni adulterine celate dall’ordinarietà convenzionale religiosa? Come
quella di Marina… Ecco un passaggio di Daphne du Maurier espresso nella forma
dialettica: intelligentibus pauca. L’anonima protagonista, attorno a cui
ruotano i servitori Alice e Robert (!), non è anonima per caso: dobbiamo capire
noi che è Alice rediviva di Carolina Nabuco. “Rebecca” inscena una nemesi a
beneficio di Alice defunta moglie di Roberto Stein. Alice II di Daphne du
Maurier è una ragazza di 21 anni senza molta esperienza, semplice e sensibile;
Maxim de Winter (alter ego di Roberto Stein) ha 42 anni e ha nell’inizio del
romanzo perso la moglie Rebecca da alcuni mesi. Costui conosce l’anonima, se ne
innamora ricambiato, i due si sposano e vanno a vivere in un’abitazione
signorile inglese. Parrebbe il plagio de “A sucessora”, però non lo è secondo
me. La storia si ripete allo scopo di farci comprendere qual è il primo termine
dell’antitesi generale. Diciamo che si tratta di un’imbeccata, nient’affatto di
plagio. Poi, come detto, stili e sostanze dei due romanzi sono molto differenti
a dispetto di tutto. “Rebecca” possiede lunghezza all’incirca doppia e un
corredo descrittivo che lo proietta verso un’agevole concreta trasposizione
scenica. È stato scritto col desiderio che se ne potesse, come poi si è fatto
più volte, farne una versione visiva animata? Non lo so, tuttavia non lo
escluderei. Maxim de Winter, a differenza di Roberto Stein, non costituisce un
personaggio che evapora subito. Ha una personalità di homo, nutre emozioni,
vive conflitti interiori, non è l’integrale vir/macho celebrato da Carolina
Nabuco, l’uomo tutto d’un pezzo, buono per tutte le occasioni. Quest’altro
confronto fa emergere un nuovo punto dialettico di distacco ideologico da “A
sucessora”. Qui si sostiene che i viri non debbano essere sensibili, in
“Rebecca” invece del servitore Robert si dice che fosse «sensitive». Se Miguel rivive in
quella grottesca parodia di Jack Favell, patetica degradazione del macho
sudamericano, il protagonista maschile in Daphne du Maurier acquista uno
spessore interiore e psicologico considerevole: idest, per interpretarlo al
cinema ci vuole un Laurence Olivier, uno che recitava il ruolo di Amleto, per
rendere l’idea. Trovo assai difficile argomentare di plagio al cospetto di
considerazioni del genere. Che Alice II, la ragazza inadatta a discutere con le
compagnie di Mrs Van Hopper (al contrario di Marina l’interlocutrice che legge
libri), rappresenti Alice di Nabuco ce lo suggeriscono altresì i comuni talenti
artistici. Un dettaglio da evidenziare bene proviene dal matrimonio civile
della coppia letteraria di du Maurier in conflitto col matrimonio religioso
della coppia di Nabuco: ecco un altro punto dialettico, analogia per contrasto;
la scrittrice inglese non apprezzava molto in assoluto il formale istituto matrimoniale.
Una nuova tessera del mosaico di “Rebecca” ponente la sua creatrice in
opposizione, sempre dialettica, deriva dal personaggio di questa signora
statunitense Van Hopper. Abbiamo visto le simpatie nei confronti degli USA di
Carolina Nabuco, dentro e fuori “A sucessora”. Daphne du Maurier sembra
attaccarle attraverso tale figura di donna matura americana (simboleggiante gli
Stati Uniti) la quale al principio del romanzo sovrintende al destino di Alice
II, come una cappa opprimente, un mantello divenuto una gabbia, da cui questa
uscirà e fuggirà “provvidenzialmente” unendosi a Maxim. La dicotomia “Mrs Van
Hopper / Alice II” è per me carica di valenze politiche. Quando in origine
Alice II spiega a Maxim che lei svolge mansioni di accompagnatrice, costui
paragona il «comprare la compagnia» a «un’idea primitiva», al «mercato
orientale degli schiavi». Il che potrebbe voler segnalare una mentalità sociale
rimasta a tratti ancora discriminatoria nei suoi settori. Nel momento in cui
“Rebecca” uscì la pentola della Storia bolliva, e non è strano che una mente
acuta e raffinata quale quella della sua creatrice vi inserisse criptici
elementi di simbolico riferimento storico concreto. Simile critica
all’americanismo a stelle e strisce di Carolina Nabuco, testimoniato dal suo
SEMPER FIDELIS, ritorna poi nella morte di Rebecca. Ella che rappresenta
MARINA, morta affonda all’interno di un’imbarcazione: una dinamica la quale non
mi pare casuale bensì pregna di significati di critica politica. Rilevo che
Daphne du Maurier ha attaccato l’asse del tradizionalismo conservatore
panamericano, asse mirante ad arginare le spinte sociali progressiste a tutela
reazionaria del potere della ricchezza fondiaria e industriale. D’altro lato il
testo dell’autrice inglese difende l’emancipazione della donna moderna da tutte
le zavorre del passato: Alice II intraprende infatti un iter di crescita il
quale condurrà l’inesperta ragazza a un grado di solida maturità. Già nelle sue
incertezze personifica comunque una donna autentica e genuina, priva di
nevrotici ornamenti religiosi. La sua non contaminata semplicità la spinge ad
apprezzare il “piacere della rimembranza” (teorizzato in opere di Mary Shelley,
ancor prima che in Leopardi). La coppia letteraria di du Maurier risiede nella
famosa residenza di Manderley, alter locus della casa signorile di Roberto
Stein e Marina. Se pensassimo di trovare a Manderley nella sorella di Maxim la
vicaria di Rebecca al pari di Germana con Alice, sbaglieremmo. Qua il compito
di tenere viva l’inquietante memoria della precedente moglie scomparsa viene
affidato alla governante, Mrs Danvers. Costei, ricopre quel ruolo vicario; ella
sta di fatto in funzione di madre di Marina (alias Rebecca). Se Mrs Danvers
difende il culto della memoria di Rebecca è perché il loro legame dinamico
riproduce quello madre-figlia nel caso di Marina de “A sucessora”: da qui la
vendicativa istigazione al suicidio rivolta ad Alice II. Il personaggio di
quest’ultima ha sviluppato subito a Manderley, nella narrazione, un senso di
disagio davanti all’ombra di Rebecca, disagio tuttavia comprensibile e che non
assurge a nevrosi ossessiva. V’è una studiata persecuzione messa in piedi da
Mrs Danvers a danno della protagonista: tutto il senso di inadeguatezza di
questa, nel romanzo della scrittrice inglese, non si mostra del tutto farina
del proprio sacco, la suddetta governante ci mette parecchio del suo. In ogni
caso Alice II viva quel clima di confronto dagli altri portato avanti tra lei e
Rebecca/Marina. E qui spunta l’ennesimo punto dialettico nell’edificazione di
Daphne du Maurier. Mentre Marina si affida al sacramento cattolico della
confessione in seguito al suo inciampo col cugino Miguel, Alice II non inciampa
nel tradimento. Rimane integra e più virtuosa di Marina, l’ipocrita che si getterà
alle spalle un fedifrago bacio. Alice II trova un “confessore”, e un amico
sincero, in Frank Crowley, un dipendente di Maxim. Notiamo una nuova dicotomia
di forte contrasto fra la confessione sacramentale e la confidenza aperta con
un amico. Si urtano un’istituzione tradizionale e un modello più libero.
“Rebecca” non costituisce, a mio avviso, affatto un plagio de “A sucessora”,
rappresenta invece il suo rovesciamento critico. Nel romanzo dell’autrice
inglese si menziona un dipinto di Rebecca portato via da casa prima delle
seconde nozze: trasponendo, vale a dire che Roberto Stein, dopo aver fatto
rimuovere il quadro che terrorizzava Marina, ne ha commissionato uno il quale
ritraesse quest’ultima, la santa ipocrita, e poi l’ha fatto rimuovere similmente,
giacché Rebecca/Marina non era uno stinco di santa. Nella parte centrale di
“Rebecca” c’è un passaggio chiave in occasione della festa di ballo in maschera
a Manderley, parallela del festeggiamento di carnevale in Brasile vissuto da
Marina con spirito quaresimale di guastafeste, spirito il quale piomberà
fatalmente su Manderley. Maxim invita la seconda consorte a travestirsi da Alice-in-Wonderland: il nome
suggerito non mi pare marginale, credo anzi che si voglia suggerire di
identificare nella protagonista Alice, reincarnata, rediviva, prima moglie di
Roberto Stein. La festa di Alice II va male giacché Mrs Danvers (madre di
Marina) la induce a indossare un costume identico a quello usato nella sua
ultima volta da Rebecca. Ciò manda ulteriormente in tilt l’anonima
protagonista, però in questo rinnovato scenario disturbante e inquietante ella
ci dice illuminanti parole circa la sua relazione con Rebecca: «Dovunque io
camminavo a Manderley, ovunque io mi sedevo, anche nei miei pensieri e nei miei
sogni, incontravo Rebecca. […] Forse la perseguitavo come lei perseguitava me
[...]. Si risentiva con me e aveva paura di me al modo in cui io mi risentivo
di lei?». Si sta parlando di un rapporto di “reciproca ossessione”
intercorrente tra la vivente e la defunta, come se vita e morte non avessero
più valore, e i due poli personali fossero stati astratti. È quel che ritengo
nell’accostare i due romanzi i quali ho sottoposto ad analisi. In ciascuno dei
due si misurano e si confrontano la cattolica Marina e la libera Alice; in
Daphne du Maurier le parti si invertono, e Marina diventa Rebecca, la morta
ossessionata dalla viva. Ecco svelato l’arcano, a mio modesto giudizio, di
quelle parole alquanto strane in superficie. Che Rebecca rappresenti Marina ce
lo conferma Mrs Danvers, alias la madre di questa seconda, allorché dichiara di
essersi presa cura di Rebecca sin da piccola. E aggiunge pure che costei aveva
abilità di eloquio, pari a quella di Marina preciso io. Una pungente frecciata
alla Danvers mette una ciliegina sulla torta della critica antitradizionalista:
«Una strana figura magra nel suo abito nero, la gonna che spazzava proprio il
suolo al pari delle piene e larghe gonne di trent'anni fa». Una sezione
delicata del mio esame inerisce alla rivelazione di Maxim del femminicidio di
Rebecca. In assoluto, fermamente, qualcosa che non si può tollerare o
giustificare. Il mio compito di critico letterario è quello di spiegare
simbologie e dinamiche: non posso, e tantomeno non vorrei, per spirito di
difesa dell’opera analizzata di Daphne du Maurier, legittimare un’uccisione
sebbene letteraria. L’omicidio costituisce un reato gravissimo, nella realtà e
pure nelle fiction: in entrambi gli ambiti si può accettare soltanto la
“legittima difesa”. Ciononostante questa non si presta a beneficio della
circostanza di Maxim, purtroppo: risulta un assassino, e la sua seconda moglie,
al corrente della verità, ne diviene complice. Ricordando il gioco delle parti,
è Roberto Stein ad ammazzare Marina/Rebecca: cioè un altro santo ipocrita cattolico
da “macho” impulsivo e passionale compie il femminicidio della coniuge. Maxim
al momento dell’omicidio si transustanzia in Roberto Stein: il suo gesto
criminale possiede ascendenza antifemminista cristiana. In tale circoscritto
tragico evento prevale l’Ombra junghiana, macchiando il responsabile
indelebilmente. Non giustifica Maxim/Roberto il fatto che Rebecca sia stata una
poco di buono. Simile ulteriore rivelazione ad Alice II libera la sua mente dal
disagio nutrito in precedenza, come nel parallelo caso di Marina. Maxim non
manifesta rimpianto a proposito del gravissimo gesto compiuto con una logica
veterotestamentaria, e ciò appesantisce la sua situazione. Se scoperto – cosa
che però nel romanzo non accadrà – avrebbe ricevuto una condanna alla pena
capitale. Personalmente, in quanto razionalista, sono contrario a qualsiasi
condanna a morte, e il disturbante brano sulla fenomenologia dell’impiccagione
in “Rebecca” me ne dà rinnovato motivo. Ma siamo all’interno di non uno, bensì
di due romanzi, con le loro impalcature simboliche, e dobbiamo fare i conti con
figure svincolate da una realtà strettamente posta sotto il controllo della
giustizia umana. Il femminicidio di Rebecca rappresenta la rivincita di Alice,
il fatto che la prima fosse una malata terminale non giustifica in alcun modo
la sua uccisione, neanche sul piano letterario, dove per me non possono
rimanere estranei nei parametri di giudizio i principi della giustizia e
dell’etica (kantiana). Ne “A sucessora” era stato oscuro desiderio di Marina
dare fuoco all’abitazione di Roberto Stein con all’interno il ritratto
inquietante di Alice. In “Rebecca”, alla fine, allorché Maxim e Alice II sono
al sicuro davanti agli ingannati occhi della Legge, Manderley va in fiamme come
in una sorta di torbida e contorta manifestazione della Nemesi. E il cerchio
congiungente secondo me due opere in una modalità dialettica, estranea al
concetto di plagio, si chiude. Se Carolina Nabuco, con tratto di eleganza, non
portò mai in tribunale Daphne du Maurier, lo fece un’anziana scrittrice
statunitense, Edwina Levin MacDonald (1878-1944), nel ’44 a New York, citando
in giudizio altresì l’editore del romanzo “Rebecca” e i produttori della
trasposizione filmica (1940) per la regia di Alfred Hitchcock. Questa autrice
americana della Louisiana (vecchio separatista Stato schiavista nel 1860),
deceduta prima della fine del giudizio, reputava che fossero stati plagiati un
paio di suoi romanzi degli anni ’20. Il giudice nella sua sentenza del ’48 ha
con puntualità chiarito, in un bell’esempio di analisi, scrittura e obiettività
di giudizio, l’infondatezza dell’accusa di plagio. Francis Rugh Grant
(1897-1993), intellettuale e attivista a sostegno del panamericanismo a stelle
e strisce, fondatore quindi nel ’30 della “Pan american women’s association” e
nel ’50 della “Inter-american association for democracy and freedom”, aveva
scritto nel ’41 un cosiddetto articolo bomba su “The New York times book
review”, dove aveva preso di mira Daphne du Maurier a vantaggio di Carolina
Nabuco. In questo testo lui si chiede quanto accidentali possano essere le
coincidenze tra i due esaminati qui romanzi di tali due scrittrici, di allora
recente pubblicazione. Ammira la famiglia dei Nabuco, apprezzata negli USA per
via dell’attività politico-amministrativa, e a proposito dell’autrice
brasiliana ci informa che la traduzione in inglese de “A sucessora”, in vista
di pubblicazioni poi rifiutate, era giunta negli USA e in Inghilterra. Di
fronte ai respingimenti motivati dalla brevità del testo in relazione alle
preferenze dei lettori anglofoni, la non piacevole sorpresa per Carolina Nabuco
fu quella di apprendere di “Rebecca” e della di esso successiva diffusione dal
’40, volto in portoghese, in Brasile. Qua le somiglianze fra le due opere hanno
animato una viva reazione contro l’autrice inglese, reazione che Grant
ripercorre nell’evidenziare le analogie anzidette. Con tutto il rispetto verso
un altro uomo di studi attento alla vita sociale, non condivido i suoi giudizi
nel merito letterario, in linea con le mie riflessioni critiche. Non saprei
dire la maniera in cui “A sucessora” possa essere eventualmente giunto fino a
Daphne du Maurier; posso ribadire la mia impressione che ella l’abbia letto,
alla luce della mia analisi parallela di “Rebecca”: non è impossibile che lei
l’abbia visto in portoghese, forse una copia provenuta dal Portogallo, e che
poi tutta la polemica e la vicenda giudiziaria a latere sopra menzionata
l’abbiano indotta, essendosi vista fraintesa (o attaccata dai tradizionalisti
panamericani), per senso di cautela, a non ammettere la possibile sua lettura
del comunque pubblicato romanzo di Carolina Nabuco. Un pesante accusatore
critico di Daphne du Maurier è stato Álvaro de Barros Lins (1912-1970),
intellettuale poliedrico brasiliano uscito da un collegio di studi salesiano
prima di studiare Legge. Costui, che nella sua vita fu una personalità di alto
spicco nel Brasile novecentesco, ha ripetuto più o meno le stesse cose di Grant
accresciute per intensità caustica, in un suo scritto intitolato “‘Rebecca’, um
plágio” e contenuto in una sua opera che raccoglie vari testi edita nel 1941.
Si trattava di un uomo che a quell’epoca aveva ricevuto l’apprezzamento di
George Bernanos (1888-1948; un considerevole esponente del Cattolicesimo
vissuto in Brasile tra il ’38 e il ’45). Io credo, nella mia modestia
intellettuale, che sostenere la tesi del plagio sulla limitata chiusa base del
raffronto di superficie comporti un blocco prematuro dell’analisi, il quale
impedisce di andare in profondità dove poter osservare meglio i meccanismi
concettuali operanti e quel nesso dialettico tra “A sucessora” e “Rebecca” che
ho descritto.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio
intitolato “Ritorno critico”