Nella giurisprudenza italiana in virtù della legge 248 del 18 agosto 2000 anche i testi pubblicati su internet godono della tutela del diritto d’autore già stabilito dalla precedente legge 633 del 22 aprile 1941. La loro riproduzione integrale o parziale è pertanto libera in presenza di scopi culturali e al di là di contesti di lucro, da questo lecito uso fuori del consenso dello scrittore si devono necessariamente poter evincere i seguenti dati: il link del testo, il titolo, l’autore e la data di pubblicazione; il link della homepage del suo contenitore web. Copiare non rispettando queste elementari norme rappresenta un illecito.

martedì 7 maggio 2024

MARINA E LA RIVINCITA DI ALICE IN DAPHNE DU MAURIER

di DANILO CARUSO
 
“A sucessora [La succeditrice]” è un romanzo pubblicato nel 1934, opera della scrittrice brasiliana Maria Carolina Nabuco de Araújo (1890-1981), la quale discendeva da una famiglia di grandi latifondisti e notevoli partecipanti alla vita politica in Brasile. Da ragazza stette in Europa e visse negli USA. A questi dedicò una sua monografia, pubblicata nel 1967, intitolata “Retrato dos Estados Unidos à luz da sua literatura”, a proposito della quale colgo l’occasione di riportare opportuni brevi elementi in vista della mia analisi, elementi illuminanti riguardo alla forma mentis di Carolina Nabuco. Lei apprezza con intensità la società statunitense cresciuta dai semi linguistici, ideologici e pratici gettati dai primi colonizzatori inglesi e dalla religione cristiana puritana, una società che ha tenuto testa al pericolo marxista. La storia de “A sucessora” ruota intorno al personaggio di Marina. Costei è una donna ventenne che ha occhi verdi e capelli castani. Possiede una larga passione per la lettura dei libri umanistici, i quali l’hanno posta un gradino più in alto nella sua giovane vita rispetto alle frivole coetanee. Se da un lato ha provato il disagio a adeguarsi a compagnie femminili leggere e mondane, dall’altro in un contesto maschile di discussione impegnata e impegnativa otteneva successo. Non costituisce roba di tutte le ragazze, neanche oggigiorno, mettere in campo simili qualità intellettuali, né persino adottare un personale ex libris: “semper fidelis”, quello di Marina, scelto per il fatto che ella giudicasse la propria seria costanza l’aspetto cardine del suo carattere. “Semper fidelis” è dal 1883 il motto ufficiale della MARINA degli USA (“United States Marine Corps”). In portoghese esiste l’aggettivo “marino/marinho” (dal latino “marinus”), il sostantivo femminile “marinha” indica pure una flotta navale. Ne “A sucessora” la protagonista conosce nell’abitazione di campagna della sua benestante famiglia, per caso, il recente vedovo Roberto Steen, un uomo di 35 anni. I due si innamorano a primo colpo e si sposano subito. Lui esce da un matrimonio, durato 14 anni, senza figli. La prima moglie, Alice, è venuta a mancare prematuramente in seguito a malattia. Gli eventi narrati nel romanzo si collocano negli anni pacifici fra le due novecentesche guerre mondiali. Nella casa di Roberto, il quale rappresenta l’esponente di una delle famiglie più ricche del Brasile, casa in cui i novelli sposi risiedono, si trova un apprezzato dipinto della figura di Alice, ritratta nel suo fulgore. Alice, nella sua breve vita, era stata un’ammiratissima primadonna. I suoi modi di dire e di fare, il suo essere, suscitavano vivi e profondi plauso, consenso e ammirazione da parte del sistema planetario delle persone che le ruotava attorno. Tutto questo insieme di amici e parenti della vecchia famiglia Steen mette Marina sotto esame, nella curiosità e nell’intenzione di vedere e valutare se la nuova sposa sia all’altezza di quella scomparsa. Questa situazione getta Marina in un agone di competizione con Alice. Il dipinto di quest’ultima diventa per la prima ragione di letterale incubo. Marina viene gradita per la sua bellezza, però scopre che le frequentazioni di Casa Steen, tra cui la cognata Germana (sorella di Roberto), sono composte di persone non amanti di discorsi i quali non siano di tono mondano e leggero. Questi amano il culto dell’edonismo, dell’estetica, del divertissement. E Marina, proveniente dal mondo del latifondo con la sua tradizione signorile, si vede disorientata al cospetto della vita borghese urbana. Tali due mondi si misurano ne “A sucessora”: il primo in avanzata condizione di decadenza dopo l’abolizione brasiliana della schiavitù nel 1888, il secondo nella sua fase inarrestabile di crescita espansiva tecnologica e industriale. Il tentativo di auspicare una mediazione tra i due si percepisce nel romanzo. Qui si tesse l’elogio del carattere di Miguel, cugino di Marina, innamorato di lei, con cui egli fu fidanzato prima che ella rompesse questo fidanzamento allo scopo di sposare Roberto. Miguel è un giornalista che rifiuta l’inclinazione razionalista, amante del connotato sentimentale e passionale tipico di un oggi non del tutto tramontato modello di uomo latinoamericano. Egli preferirebbe porsi nella veste di stimolatore degli istinti della massa piuttosto che di educatore e modellatore. La sua vicenda, culminante nella decisione di collocarsi ai margini in una società oramai richiedente migliori dosi di ordine, viene presentata dall’autrice brasiliana del testo analizzato come un insuccesso. Qua non sono d’accordo sui valori assegnati alle parti della problematica. L’impulsivo uomo latinoamericano del vecchio stile, per me, non costituisce un modello positivo. Il macho e il machismo, l’azione predominante su riflessione e ratio in virtù di un’esclusiva conduzione emotiva, ai miei occhi, rappresentano deragliamenti. Io sono razionalista, e giudico inopportuno lasciare la guida della biga platonica ai cavalli. Di simile mondo rurale di cui Carolina Nabuco lamenta il tramonto ci sono elementi che non mi piacciono. Il primo è il suprematismo dei bianchi discendenti dei colonizzatori portoghesi, il quale non è stato archiviato integralmente. Si percepisce un’atmosfera di coabitazione forzata con i paralleli discendenti degli indigeni e degli altri emigrati di varie etnie. In alcuni passaggi del romanzo, pochi ma significativi, questi vengono disprezzati a motivo della loro arretratezza e ignoranza, addirittura a costoro si attribuiscono comportamenti (in non giustificata e poco chiara guisa) i quali li disegnano (con obiettività forzata) quali personaggi negativi. Ciò non accade a carico dei bianchi civilizzati, avvolti comunque da un’aura di superiorità. Carolina Nabuco era figlia di un politico liberalconservatore, abolizionista della schiavitù in Brasile a suo tempo, timoroso, a quanto si tramanda dal passato, del pericolo di una africanizzazione della nazione brasiliana. Il di ella romanzo registra ombre e contraddizioni. Queste sono riconducibili a una non tanto dissimulata apologia della tradizione cattolica bianca portoghese. Vale la pena non trascurare che un “Catecismo historiado (Doutrina cristã para a primeira comunhão)” di questa autrice fu dato alle stampe nella sua Patria nel 1940, e ristampato in altre tre edizioni sino al 1957. Di Marina si apprezza ne “A sucessora” la sua “pulita” linea di discendenza. Di tale connotato della, alla fine, vittoriosa protagonista, rimane più l’apologo che la condanna. Quando la scrittrice brasiliana ha affrontato nel romanzo il tema della convivenza multietnica in Brasile, mostrando una tagliente sensazione di sgradimento nei riguardi del fenomeno («Una sfilata senza fine. Razza senza bellezza [...] curiosamente mista. Tipi opposti, che si incrociavano con indifferenza, senza rendersi conto dei contrasti che presentavano, uniti, nel nuovo mondo, solo dallo spirito nazionale, in modo lento e solido formatosi»), ha tra l’altro parlato dei «grandi nasi di Ebrei». Tale dettaglio inserito nel testo assieme al concetto di «raça» negli anni ’30, gli anni di ascesa del nazismo tedesco, non ci appare a lunga distanza delicato né può passare inosservato o sfuggirci. Parlare di «narizes grandes de judeu» equivale a mostrare un topos derivante dall’input dell’originario tradizionale antisemitismo del Cristianesimo. Questa eco del Cattolicesimo rilevata fa trasparire il condizionamento di una tradizione religiosa, la quale viene più ossequiata che criticata. Marina e sua madre escono da una rigida formazione educativa cattolica, tuttavia (di fronte alla loro chiusura) nel romanzo brillano sempre alla volta della meta finale. Roberto, altresì, è un cattolico praticante. Pare di trovarci ne “I promessi sposi”, con Agnese, Lucia e Renzo. Del discutibile Cattolicesimo, non soltanto, brasiliano, accanto a quella macchia antisemita testé segnalata, nel romanzo possiamo osservare una festa religiosa dove si svolge lo sgozzamento di un pupazzo rappresentante una strega. Il che costituisce chiaro indice, quantunque in un clima di divertissement, di tragiche memorie di persecuzioni passate, le quali proprio la modernità illuministica ha costretto a non praticare più con una prosecuzione cruenta a scapito di donne reali. Tale Brasile di Carolina Nabuco (la quale nella propria vita rimase nubile) da fondarsi, secondo un’accolta prospettiva manzoniana ne “A sucessora”, sopra una tradizione cristiana resa meglio adeguata alle circostanze della contemporaneità, però non gran che a livello normativo meno asfissiante, a me non piace. Rammento l’elogio del machismo su evocato, ma non manca pure uno spirito antifemminista contrapposto a quella nuova storica società meglio aperta alla laicità. Viene detto nel romanzo: «Oggi nessuno vuole sapere nulla che possa ostacolare la libertà. Le belle donne vogliono essere in grado di mostrare anche la loro ignoranza senza costrizione». Ciò è affermato in contrasto alla cattolica Marina, la campionessa, incensurata, del testo in esame, la quale prega regolarmente e cammina col rosario. L’antipatia di Carolina Nabuco nei confronti di un mondo più libero e meno asservito alla dottrina cristiana si rivela palpabile all’interno di un’impalcatura narrativa che propone di abbandonare solo l’improponibile della avita tradizione cattolica brasiliana: schiavismo, pratiche persecuzioni religiose. Ma per il resto la scrittrice brasiliana sembra dirci che il suprematismo bianco e il primato cattolico permangono dei valori da non accantonare: indigeni, Giudei e neri restano comunque esseri da tenere a distanza nel novero del nuovo Brasile borghese. Anche se tramonta il machista latifondo cattolico, a torto o a ragione, l’autrice del libro pare dirci, non poi in maniera così tanto velata, che la rinnovata società brasiliana deve proseguire dentro i valori imposti dalla Chiesa, della quale ricordo in America Latina la precedente lunga diffusione del tramontato strumento razzistico de los estatutos de limpieza de sangre. Norme protonaziste provenienti dalla quattrocentesca cattolicissima Spagna, dove presero di mira, con obiettivo discriminatorio, sulla base di un (ingiustificabile!) parametro biologico fondato sulla purezza del sangue nella linea ereditaria familiare cristiana, in primis Ebrei e a seguire i neri e i musulmani (tutti giudicati di pericoloso sangue malsano), si radicarono pure in Brasile, grande colonia portoghese sudamericana. Qua trovarono applicazione all’interno della società coloniale e rimasero in vigore sino al 1773. L’Inquisizione cattolica fu per secoli operativa sull’intero territorio dell’America Latina in seguito a riflesso spagnolo e portoghese. In Brasile fu attiva tra ’500 e ’700: a Belo Horizonte dal 2012 esiste il Museo dell’Inquisizione brasiliana, e ogni 31 marzo le vittime di irragionevoli persecuzioni vengono commemorate. La Chiesa cattolica non ha mai sciolto il suo istituto di indagine, bensì varie volte cambiatogli denominazione: dal 1965 quell’istituzione che fu l’Inquisizione si chiama Congregazione per la dottrina della fede. L’Inquisizione portoghese fu abolita con legge statale nel 1821. Il Brasile si proclamò indipendente dalla madrepatria nel 1822, nel 1889 da monarchia con religione di Stato cattolica si trasformò in una repubblica federale proiettata verso una salubre migliore laicità. In Portogallo nel 2020 è stata istituita la Giornata nazionale della memoria per le vittime dell’Inquisizione (31 marzo). Gli anni ’30 brasiliani furono un’epoca irrequieta in cui il neonato regime dittatoriale e conservatore di Getúlio Vargas arginava le pressioni politiche emergenti da destra e da sinistra (al pari della Chiesa già in conflitto con liberali e marxisti). Nel 1931 fu terminato il monumentale “Cristo redentore” di Rio de Janeiro (allora capitale federale). È in tale clima che esce “A sucessora” con la sua pervasione cattolica. Perciò Marina e Roberto riecheggiano Renzo e Lucia, e d’altro canto la morte di Alice si può paragonare a quella di Don Rodrigo a dispetto delle rispettive collocazioni cronologiche narrative. La scomparsa della prima moglie di Roberto viene in modo molto discutibile esibita come “provvidenziale” al pari di quella dell’antagonista manzoniano. “A sucessora” risente di letture cattoliche dell’autrice. Allorché Miguel bacia Marina da sposata si mostra una suggestione dantesca proveniente da Paolo e Francesca. Con l’eccezione che Marina, la quale sul momento è stata condiscendente, ha poi subito chiuso la faccenda liquidandola quale “peccato” e confessandosi con un sacerdote, inoltre allontanando il cugino stabilmente. Ecco il potere “salvifico” del Cattolicesimo, in un episodio di cui Roberto non avrà mai notizia. La figura di simile marito si mostra nel testo parecchio evanescente, e non si rivela un caso che Marina gradisca del consorte soprattutto il lato esteriore del vir: Roberto non possiede, o non viene messa in scena, una profondità di homo, la quale nonostante tutto, possiede un po’ meglio il sentimentale Miguel. La cattolica Marina è in maniera patologica ossessionata da Alice e dal quadro che la rappresenta. Nel motivo del dipinto espressione di mostruosità, di qualcosa di terrificante, appare suggestione wildeiana. Il romanzo indica coordinate psicanalitiche in direzione dell’inquadramento clinico della personalità di Marina in guisa esplicita, ma non le porta a compimento. Lascia questo confronto fra le due donne, la morta e la viva, avvolto nel torbido. Come se ci fosse veramente una sfida, una prosecuzione del fascino dell’azione di Alice dall’oltretomba. Per quasi tutto il romanzo il sistema familiare di Roberto Steen trama contro la nuova moglie e ha a capo simbolico, vicaria di Alice, Germana, l’apologeta principale della precedente cognata. Alice diventa per Marina un pesante complesso nevrotico persecutorio. Carolina Nabuco mette in risalto gli effetti, non le cause del fenomeno. Marina è molto disturbata per via dell’educazione cattolica ricevuta poiché le ha imposto una forma mentis chiusa, al di là di quelli che possono essere i suoi pregi. La ragione della sua sofferenza viene dunque caricata sulla “diabolica” Alice, la donna «coraggiosa [destemida]» assetata di svaghi, presa di mira persino quando pone in pericolo sé nel tentativo riuscito di porre in salvo un bimbo. Un atto di per sé meritevole e di valore subisce nel testo un incomprensibile richiamo sulla base della temerarietà. Carolina Nabuco contesta un’inversione dei ruoli fra uomini e donne, dove le seconde assumono caratteri maschili (il coraggio, nel caso menzionato) mentre i primi si effeminano. Di quest’ultima casistica è exemplum un altro brano nel quale Miguel rimprovera se stesso: «Un uomo non deve avere sensibilità [sensibilidade]». La figura di Alice assume il ruolo di simbolo della emancipata donna moderna, rappresenta la nuova strega, la porta dell’Inferno. L’incidente casalingo in cui Marina sta provocando, non si sa con quanta involontarietà, l’incendio del ritratto della rivale configura, al di fuori degli schemi narrativi di superficie, un tentativo di uccidere, di bruciare, la strega (si tratta di un motivo già in precedenza segnalato altrove, passaggio in cui l’evidenza era peraltro più nitida). La nuova moglie di Roberto si prefigge di riportare il ritmo della vita attorno alla coppia dentro i ferrei confini della morale cattolica giacché tiene presente che è «dovere delle donne cristiane lottare contro la paganizzazione dei tempi nei suoi sintomi manifesti». Ne pagano le spese gli amici non sposati in chiesa, banditi al pari degli eventi nella piscina casalinga in quanto l’abbigliamento in costume moderno ritenuto scandaloso e immorale. Non dimentichiamo che la Costituzione del Brasile emanata nel 1891, rimasta in vigore fino al 1930, riconosceva valido solo il matrimonio civile («A Republica só reconhece o casamento civil, cuja celebração será gratuita»). Nell’era vargasiana il matrimonio religioso assunse a possibilità di validità civile. È questa la Marina in marcia attraverso la narrazione avanzante in direzione del trionfo finale: una giovane nevrotica cattolica in relazione a cui la scrittrice brasiliana fa notare che è il mondo sbagliato intorno a Marina, e non il contrario (dove si potrebbe invece con equilibrio consono far notare i difetti di una modernità tuttavia da non demonizzare, tanto meno in toto). Che la giovane donna preferisca la compagnia dei libri e quella di persone con maturità costituisce una delle poche cose che ammiro di Marina: neanche a me piace circondarmi di saltimbanchi. De “A sucessora” al termine degli anni ’70 è stata realizzata in Brasile una trasposizione scenica televisiva (ancora vivente Carolina Nabuco). Fu nel 1983 tra le prime telenovelas ad arrivare in Italia. Me la ricordo benissimo, sebbene fossi allora piccolo, e rammento di averla seguita sino all’ultima puntata, la quale mi è rimasta in mente. A più di quarant’anni delle oltre cento puntate precedenti non ricordo niente in dettaglio, però a proposito dell’ultima puntata rammento di essere rimasto a casa allo scopo preciso di vederla. Sopra ho parlato del quadro riproducente Alice il quale nel romanzo stava per finire bruciato. Nella telenovela, nella puntata conclusiva, si scopre che Alice aveva avuto, all’insaputa di Roberto, un figlio da un amante prima che ella morisse precocemente. Il desiderio di Marina nella narrazione scritta di trovare un difetto, una pecca, della venerata dagli altri sopravvissuti conoscenti Alice, nella telenovela trova soddisfazione in tale memorabile ultimo episodio, di cui non ho dimenticato che Roberto, messo alle strette dall’evidenza di una sconosciuta Alice fedifraga, prende una specie di torcia e dà fuoco al dipinto della prima moglie distruggendolo per sempre. La telenovela ha consumato (in effigie) il rogo della strega, della ianua Diaboli, non compiutosi nel romanzo, nel quale però Marina ha chiesto in preghiera che l’abitazione dove risiedeva col marito fosse tutta divorata dalle fiamme con dentro il ritratto temuto (ancora una volta notiamo un tema cristiano, quello del fuoco punitore e purificatore). La fuga di Marina verso la casa originaria materna (non ha più il padre da tempo) raffigura il desiderio di Carolina Nabuco di un ritorno a una stagione tramontata nella quale dominava l’economia agricola del latifondo gestito dai discendenti dei coloni portoghesi. V’è nelle pagine di questa sezione l’evento legato all’albero preferito durante l’infanzia della protagonista, nel corso del quale esso viene tagliato per fare legna da un servo ignaro dell’attaccamento di Marina. Ella pensa fra sé e sé all’indirizzo di costui che l’aveva lasciata contrariata: «Non vale la pena di arrabbiarsi con questo stupido vicino». L’abbattimento di tale albero costituisce allegoria della fine del regime del latifondo a manodopera servile coatta. L’autrice brasiliana è cosciente che non si può mettere ormai indietro l’orologio della Storia. Proietta dunque la sua disgustata protagonista del mondo offertole dal marito non verso la reazione radicale, bensì in direzione di una sintesi nella dialettica tra Marina e la borghesia urbana, successivamente al superamento della protratta negativa fase critica. Marina resta incinta. L’idea della paternità cancella tutti dubbi di Roberto di fronte allo strano comportamento della moglie volta ad allontanarsi dal ritratto inquietante di Alice. I due erano andati vicini a una rottura insanabile, però adesso la maternità di lei li porta lontani in un viaggio di festeggiamento dell’evento. Nel suo svolgimento, Marina apprende, attraverso una vecchia conoscente di Alice, che questa de facto non fu mai in verità felice nella sua esistenza per il fatto di non aver potuto avere dei figli. L’informazione disattiva la nevrosi incentrata sulla prima moglie di Roberto. La salda perfezione venerata in Alice da altri crolla davanti allo sguardo di Marina, la quale ne coglie una discutibile dimensione di incompiutezza. L’autrice brasiliana del romanzo ha consentito alla sua protagonista di rimuovere l’assedio del nevrotico complesso di Alice in un modo da me giudicato poco pulito. La maternità di Marina qua si configura infatti quale destino delle donne cristiane, non quale possibilità biologica di ciascuna donna. Carolina Nabuco ci sta riproponendo un principio religioso: il principale compito femminile risiede nel fare bambini e nel prendersene cura sino all’adolescenza; in sostituzione una vita morigerata, monacale (della scrittrice è opera una biografia, edita nel 1957, di Caterina da Siena, santa al giorno d'oggi scientificamente ritenuta di disturbata personalità anoressica). La cosa non mi piace per ciò, non per via dell’altro principio che ho contrapposto nell’antitesi. Perché notiamo in maniera nitida che Alice alla fine ne esce sconfitta a causa del mancato soddisfacimento nel divertissement di un’aspettativa di matrice religiosa. Sarebbe accettabile la conclusione de “A sucessora” che le donne non puritane le quali non hanno condotto gestazioni non sono donne compiute? Di certo, no. E non mi pare il caso di protrarmi in merito. Se Marina ha superato la sua nevrosi – e sono d’accordo sul fatto che la superata – è in virtù di un altro meccanismo, junghiano. Il nevrotico complesso di Alice, cui Marina aveva aperto le porte, si allontana giacché quest’ultima consegue l’archetipo di Madre Natura, il quale le dà l’energia di guardare altrove e avanti. Lo schema religioso offre una pseudosoluzione. Comunque, Marina riesce a parlare con Roberto dei suoi problemi, e il quadro va a finire in un museo per decisione del secondo. Preferisco il finale del libro a quello della telenovela. “A sucessora” è un romanzo noto al di là del suo valore letterario perché assieme a un’altra più conosciuta opera di altra autrice è stato al centro di una polemica critica dentro la quale si è sospettata, e anche accusata, di plagio, senza che si finisse tuttavia a vie giudiziarie, Daphne du Maurier (1907-1989) in relazione al suo celebre romanzo “Rebecca” (uscito nel 1938, quattro anni dopo “A sucessora”). Ho letto ed esaminato il secondo testo di questa scrittrice inglese, il quale mi ha destato un’ottima impressione. Riguardo alla vexata quaestio io non parlerei in assoluto di plagio, neanche se Daphne du Maurier avesse letto la precedente opera della scrittrice brasiliana, indicata da alcuni critici quale base di ispirazione per la creazione di “Rebecca”. La conclusione della mia analisi su quest’ultimo testo mi spinge a credere che la sua creatrice abbia effettivamente letto “A sucessora”, però, al contrario delle affermazioni di questi polemici critici evocati, abbia elaborato un nuovo lavoro, originale e di alto pregio letterario, il quale in rapporto al precedente costituisce una sorta di “sequel dialettico”, una risposta, una replica, un’obiezione al patrimonio ideale messo là in risalto e valorizzato da Carolina Nabuco. Secondo me Daphne du Maurier ha operato una cosa molto intelligente, parecchio studiata, non alla portata di tutti, ma neanche fuori del campo di comprensibilità. Io giudico, naturalmente in linea ipotetica, nella maniera in cui verrò a spiegare appresso, che fra “A sucessora” e “Rebecca” ci sia un legame organico nel quale analogie per consonanza e per contrasto non siano il risultato di coincidenze né tanto meno di plagio, bensì tessere chiave da decodificare nell’intero mosaico della scrittrice inglese. Al principio del mio esame di “Rebecca, nel confrontare i due testi in questione, ho avuto presto l’impressione che ci fosse un filo tra di questi, e non molto dopo mi è apparso un rapporto dialettico, nella guisa già accennata. Nell’analisi proseguente mi sono poggiato sull’orientamento ideale e sulla forma mentis di Daphne du Maurier, la quale è stata una donna di inclinazione laica e progressista, non legata al tradizionalismo religioso (era figlia di un massone). Ciò, unito al fatto che quando ideò “Rebecca” era intorno ai trent’anni (cioè una giovane donna nel pieno delle energie investite nelle vocazioni giovanili), mi induce a ritenere che la suddetta opera metta in scena un rovesciamento delle preferenze tradizionalistiche di Carolina Nabuco e che pertanto i due lavori de facto debbano avere necessariamente delle tangenze. Io giudico plausibile che lo scopo di “Rebecca” nella mente della sua autrice sia stato quello di ribattere al tradizionalismo religioso esaltato dalla scrittrice brasiliana. Penso, per via di canali di collegamento dialettico i quali a breve illustrerò meglio, che Daphne du Maurier abbia visto “A sucessora”, non le sia piaciuto il contenuto ideologico reazionario, e che nel suo slancio di giovane abbia costruito un sottile sequel di replica: un qualcosa paragonabile a una disputa fra due opere filosofiche nella quale la seconda va a replicare e rispondere. Ho letto così “Rebecca” dal momento che mi sono chiesto quale fosse il suo input creativo, volendo altresì verificare se ci fossero coincidenze più o meno casuali o addirittura un plagio. Scarto di netto tutto quanto altri critici miei predecessori hanno in merito connesso con un’ipotesi di plagio. Mi sento di spezzare una lancia a favore della scrittrice inglese, dunque rifiuto le conclusioni a di lei scapito approdanti all’imputazione di imitazione indebita. Non vedo clonazione: “A sucessora” e “Rebecca” sono due romanzi differenti, un’opera filocattolica e una risposta nero-gialla. A mio modesto modo di valutare non si può parlare di plagio in alcuna maniera: dietro simile scia, in extremis e per assurdo, si potrebbero accusare di aver plagiato H. G. Wells tutti coloro che nei loro elaborati abbiano messo una time machine e un time traveller. Tutt’al più negli altrui panni riferendosi al nostro caso avrei parlato di “ascendenze” e non di “plagio”. Non nego ovviamente che esistano possibilità di plagi letterari, ma non mi pare questo all’esame l’exemplum. Farò notare, con la migliore nitidezza possibile, come la relazione fra i due lavori al mio vaglio sia di “tesi e antitesi” e non di “copia e incolla”. Le analogie dinamiche, siano consonanti o contrastanti, possiedono di necessità una loro lecita ragion d’essere in un’esposizione puntuale e dialettica di confronto ideale: non si può replicare a un’illustrazione altrui se non la si demolisce ripercorrendola. Daphne du Maurier, secondo me, ha prodotto in “Rebecca” una demolizione e un ribaltamento del tradizionalismo religioso di Carolina Nabuco, e lo ha attuato in una forma così raffinata che forse è sfuggita, oppure se compresa non è stata presa molto bene. Procediamo dunque a vedere simile romanzo dell’autrice inglese e a rilevare i punti cardine della costruzione. C’è un brano che nella mia ottica analitica delineata mi ha molto colpito e che mi è parso la serratura di tutto: «Gli uomini sono più semplici di quanto tu immagini [...] ma ciò che accade nelle intrecciate tortuose menti delle donne confonderebbe chiunque». Sarebbe a dire in generale a proposito del romanzo: andate oltre un’ingannevole sensazione di plagio, scavate a fondo. È quello che ho fatto io, accogliendo l’invito in direzione di una prospettiva che già prima nella mia lettura avevo assunto. Tale passaggio mi è sembrato un nulla osta. La prima cosa da chiarire adesso nel mio cammino d’esame riguarda la protagonista anonima di “Rebecca”. Tutti sarebbero spinti ad accostarla a Marina dell’altro romanzo. Io ritengo la cosa sbagliata: l’anonima è Alice, Alice reincarnata in cerca di giustizia per il precedente modo di essere stata trattata; Marina la cattolica, è Rebecca. Come, si dirà, la santa Marina potrebbe essere rappresentata dalla fedifraga poco di buono di Rebecca? Dico io: però Marina da sposata non ha baciato il cugino Miguel, poi salvando la facciata e le apparenze? Una delle cose che “Rebecca” ci vuol far capire – ipotizzo – è che dietro al vanto di cristiane virtù può stare ben altro: Rebecca e suo cugino rappresentano Marina e suo cugino, non in un contesto di plagio, ma di pesante critica dell’ipocrisia religiosa cristiana. Chissà quante relazioni adulterine celate dall’ordinarietà convenzionale religiosa? Come quella di Marina… Ecco un passaggio di Daphne du Maurier espresso nella forma dialettica: intelligentibus pauca. L’anonima protagonista, attorno a cui ruotano i servitori Alice e Robert (!), non è anonima per caso: dobbiamo capire noi che è Alice rediviva di Carolina Nabuco. “Rebecca” inscena una nemesi a beneficio di Alice defunta moglie di Roberto Stein. Alice II di Daphne du Maurier è una ragazza di 21 anni senza molta esperienza, semplice e sensibile; Maxim de Winter (alter ego di Roberto Stein) ha 42 anni e ha nell’inizio del romanzo perso la moglie Rebecca da alcuni mesi. Costui conosce l’anonima, se ne innamora ricambiato, i due si sposano e vanno a vivere in un’abitazione signorile inglese. Parrebbe il plagio de “A sucessora”, però non lo è secondo me. La storia si ripete allo scopo di farci comprendere qual è il primo termine dell’antitesi generale. Diciamo che si tratta di un’imbeccata, nient’affatto di plagio. Poi, come detto, stili e sostanze dei due romanzi sono molto differenti a dispetto di tutto. “Rebecca” possiede lunghezza all’incirca doppia e un corredo descrittivo che lo proietta verso un’agevole concreta trasposizione scenica. È stato scritto col desiderio che se ne potesse, come poi si è fatto più volte, farne una versione visiva animata? Non lo so, tuttavia non lo escluderei. Maxim de Winter, a differenza di Roberto Stein, non costituisce un personaggio che evapora subito. Ha una personalità di homo, nutre emozioni, vive conflitti interiori, non è l’integrale vir/macho celebrato da Carolina Nabuco, l’uomo tutto d’un pezzo, buono per tutte le occasioni. Quest’altro confronto fa emergere un nuovo punto dialettico di distacco ideologico da “A sucessora”. Qui si sostiene che i viri non debbano essere sensibili, in “Rebecca” invece del servitore Robert si dice che fosse «sensitive». Se Miguel rivive in quella grottesca parodia di Jack Favell, patetica degradazione del macho sudamericano, il protagonista maschile in Daphne du Maurier acquista uno spessore interiore e psicologico considerevole: idest, per interpretarlo al cinema ci vuole un Laurence Olivier, uno che recitava il ruolo di Amleto, per rendere l’idea. Trovo assai difficile argomentare di plagio al cospetto di considerazioni del genere. Che Alice II, la ragazza inadatta a discutere con le compagnie di Mrs Van Hopper (al contrario di Marina l’interlocutrice che legge libri), rappresenti Alice di Nabuco ce lo suggeriscono altresì i comuni talenti artistici. Un dettaglio da evidenziare bene proviene dal matrimonio civile della coppia letteraria di du Maurier in conflitto col matrimonio religioso della coppia di Nabuco: ecco un altro punto dialettico, analogia per contrasto; la scrittrice inglese non apprezzava molto in assoluto il formale istituto matrimoniale. Una nuova tessera del mosaico di “Rebecca” ponente la sua creatrice in opposizione, sempre dialettica, deriva dal personaggio di questa signora statunitense Van Hopper. Abbiamo visto le simpatie nei confronti degli USA di Carolina Nabuco, dentro e fuori “A sucessora”. Daphne du Maurier sembra attaccarle attraverso tale figura di donna matura americana (simboleggiante gli Stati Uniti) la quale al principio del romanzo sovrintende al destino di Alice II, come una cappa opprimente, un mantello divenuto una gabbia, da cui questa uscirà e fuggirà “provvidenzialmente” unendosi a Maxim. La dicotomia “Mrs Van Hopper / Alice II” è per me carica di valenze politiche. Quando in origine Alice II spiega a Maxim che lei svolge mansioni di accompagnatrice, costui paragona il «comprare la compagnia» a «un’idea primitiva», al «mercato orientale degli schiavi». Il che potrebbe voler segnalare una mentalità sociale rimasta a tratti ancora discriminatoria nei suoi settori. Nel momento in cui “Rebecca” uscì la pentola della Storia bolliva, e non è strano che una mente acuta e raffinata quale quella della sua creatrice vi inserisse criptici elementi di simbolico riferimento storico concreto. Simile critica all’americanismo a stelle e strisce di Carolina Nabuco, testimoniato dal suo SEMPER FIDELIS, ritorna poi nella morte di Rebecca. Ella che rappresenta MARINA, morta affonda all’interno di un’imbarcazione: una dinamica la quale non mi pare casuale bensì pregna di significati di critica politica. Rilevo che Daphne du Maurier ha attaccato l’asse del tradizionalismo conservatore panamericano, asse mirante ad arginare le spinte sociali progressiste a tutela reazionaria del potere della ricchezza fondiaria e industriale. D’altro lato il testo dell’autrice inglese difende l’emancipazione della donna moderna da tutte le zavorre del passato: Alice II intraprende infatti un iter di crescita il quale condurrà l’inesperta ragazza a un grado di solida maturità. Già nelle sue incertezze personifica comunque una donna autentica e genuina, priva di nevrotici ornamenti religiosi. La sua non contaminata semplicità la spinge ad apprezzare il “piacere della rimembranza” (teorizzato in opere di Mary Shelley, ancor prima che in Leopardi). La coppia letteraria di du Maurier risiede nella famosa residenza di Manderley, alter locus della casa signorile di Roberto Stein e Marina. Se pensassimo di trovare a Manderley nella sorella di Maxim la vicaria di Rebecca al pari di Germana con Alice, sbaglieremmo. Qua il compito di tenere viva l’inquietante memoria della precedente moglie scomparsa viene affidato alla governante, Mrs Danvers. Costei, ricopre quel ruolo vicario; ella sta di fatto in funzione di madre di Marina (alias Rebecca). Se Mrs Danvers difende il culto della memoria di Rebecca è perché il loro legame dinamico riproduce quello madre-figlia nel caso di Marina de “A sucessora”: da qui la vendicativa istigazione al suicidio rivolta ad Alice II. Il personaggio di quest’ultima ha sviluppato subito a Manderley, nella narrazione, un senso di disagio davanti all’ombra di Rebecca, disagio tuttavia comprensibile e che non assurge a nevrosi ossessiva. V’è una studiata persecuzione messa in piedi da Mrs Danvers a danno della protagonista: tutto il senso di inadeguatezza di questa, nel romanzo della scrittrice inglese, non si mostra del tutto farina del proprio sacco, la suddetta governante ci mette parecchio del suo. In ogni caso Alice II viva quel clima di confronto dagli altri portato avanti tra lei e Rebecca/Marina. E qui spunta l’ennesimo punto dialettico nell’edificazione di Daphne du Maurier. Mentre Marina si affida al sacramento cattolico della confessione in seguito al suo inciampo col cugino Miguel, Alice II non inciampa nel tradimento. Rimane integra e più virtuosa di Marina, l’ipocrita che si getterà alle spalle un fedifrago bacio. Alice II trova un “confessore”, e un amico sincero, in Frank Crowley, un dipendente di Maxim. Notiamo una nuova dicotomia di forte contrasto fra la confessione sacramentale e la confidenza aperta con un amico. Si urtano un’istituzione tradizionale e un modello più libero. “Rebecca” non costituisce, a mio avviso, affatto un plagio de “A sucessora”, rappresenta invece il suo rovesciamento critico. Nel romanzo dell’autrice inglese si menziona un dipinto di Rebecca portato via da casa prima delle seconde nozze: trasponendo, vale a dire che Roberto Stein, dopo aver fatto rimuovere il quadro che terrorizzava Marina, ne ha commissionato uno il quale ritraesse quest’ultima, la santa ipocrita, e poi l’ha fatto rimuovere similmente, giacché Rebecca/Marina non era uno stinco di santa. Nella parte centrale di “Rebecca” c’è un passaggio chiave in occasione della festa di ballo in maschera a Manderley, parallela del festeggiamento di carnevale in Brasile vissuto da Marina con spirito quaresimale di guastafeste, spirito il quale piomberà fatalmente su Manderley. Maxim invita la seconda consorte a travestirsi da Alice-in-Wonderland: il nome suggerito non mi pare marginale, credo anzi che si voglia suggerire di identificare nella protagonista Alice, reincarnata, rediviva, prima moglie di Roberto Stein. La festa di Alice II va male giacché Mrs Danvers (madre di Marina) la induce a indossare un costume identico a quello usato nella sua ultima volta da Rebecca. Ciò manda ulteriormente in tilt l’anonima protagonista, però in questo rinnovato scenario disturbante e inquietante ella ci dice illuminanti parole circa la sua relazione con Rebecca: «Dovunque io camminavo a Manderley, ovunque io mi sedevo, anche nei miei pensieri e nei miei sogni, incontravo Rebecca. […] Forse la perseguitavo come lei perseguitava me [...]. Si risentiva con me e aveva paura di me al modo in cui io mi risentivo di lei?». Si sta parlando di un rapporto di “reciproca ossessione” intercorrente tra la vivente e la defunta, come se vita e morte non avessero più valore, e i due poli personali fossero stati astratti. È quel che ritengo nell’accostare i due romanzi i quali ho sottoposto ad analisi. In ciascuno dei due si misurano e si confrontano la cattolica Marina e la libera Alice; in Daphne du Maurier le parti si invertono, e Marina diventa Rebecca, la morta ossessionata dalla viva. Ecco svelato l’arcano, a mio modesto giudizio, di quelle parole alquanto strane in superficie. Che Rebecca rappresenti Marina ce lo conferma Mrs Danvers, alias la madre di questa seconda, allorché dichiara di essersi presa cura di Rebecca sin da piccola. E aggiunge pure che costei aveva abilità di eloquio, pari a quella di Marina preciso io. Una pungente frecciata alla Danvers mette una ciliegina sulla torta della critica antitradizionalista: «Una strana figura magra nel suo abito nero, la gonna che spazzava proprio il suolo al pari delle piene e larghe gonne di trent'anni fa». Una sezione delicata del mio esame inerisce alla rivelazione di Maxim del femminicidio di Rebecca. In assoluto, fermamente, qualcosa che non si può tollerare o giustificare. Il mio compito di critico letterario è quello di spiegare simbologie e dinamiche: non posso, e tantomeno non vorrei, per spirito di difesa dell’opera analizzata di Daphne du Maurier, legittimare un’uccisione sebbene letteraria. L’omicidio costituisce un reato gravissimo, nella realtà e pure nelle fiction: in entrambi gli ambiti si può accettare soltanto la “legittima difesa”. Ciononostante questa non si presta a beneficio della circostanza di Maxim, purtroppo: risulta un assassino, e la sua seconda moglie, al corrente della verità, ne diviene complice. Ricordando il gioco delle parti, è Roberto Stein ad ammazzare Marina/Rebecca: cioè un altro santo ipocrita cattolico da “macho” impulsivo e passionale compie il femminicidio della coniuge. Maxim al momento dell’omicidio si transustanzia in Roberto Stein: il suo gesto criminale possiede ascendenza antifemminista cristiana. In tale circoscritto tragico evento prevale l’Ombra junghiana, macchiando il responsabile indelebilmente. Non giustifica Maxim/Roberto il fatto che Rebecca sia stata una poco di buono. Simile ulteriore rivelazione ad Alice II libera la sua mente dal disagio nutrito in precedenza, come nel parallelo caso di Marina. Maxim non manifesta rimpianto a proposito del gravissimo gesto compiuto con una logica veterotestamentaria, e ciò appesantisce la sua situazione. Se scoperto – cosa che però nel romanzo non accadrà – avrebbe ricevuto una condanna alla pena capitale. Personalmente, in quanto razionalista, sono contrario a qualsiasi condanna a morte, e il disturbante brano sulla fenomenologia dell’impiccagione in “Rebecca” me ne dà rinnovato motivo. Ma siamo all’interno di non uno, bensì di due romanzi, con le loro impalcature simboliche, e dobbiamo fare i conti con figure svincolate da una realtà strettamente posta sotto il controllo della giustizia umana. Il femminicidio di Rebecca rappresenta la rivincita di Alice, il fatto che la prima fosse una malata terminale non giustifica in alcun modo la sua uccisione, neanche sul piano letterario, dove per me non possono rimanere estranei nei parametri di giudizio i principi della giustizia e dell’etica (kantiana). Ne “A sucessora” era stato oscuro desiderio di Marina dare fuoco all’abitazione di Roberto Stein con all’interno il ritratto inquietante di Alice. In “Rebecca”, alla fine, allorché Maxim e Alice II sono al sicuro davanti agli ingannati occhi della Legge, Manderley va in fiamme come in una sorta di torbida e contorta manifestazione della Nemesi. E il cerchio congiungente secondo me due opere in una modalità dialettica, estranea al concetto di plagio, si chiude. Se Carolina Nabuco, con tratto di eleganza, non portò mai in tribunale Daphne du Maurier, lo fece un’anziana scrittrice statunitense, Edwina Levin MacDonald (1878-1944), nel ’44 a New York, citando in giudizio altresì l’editore del romanzo “Rebecca” e i produttori della trasposizione filmica (1940) per la regia di Alfred Hitchcock. Questa autrice americana della Louisiana (vecchio separatista Stato schiavista nel 1860), deceduta prima della fine del giudizio, reputava che fossero stati plagiati un paio di suoi romanzi degli anni ’20. Il giudice nella sua sentenza del ’48 ha con puntualità chiarito, in un bell’esempio di analisi, scrittura e obiettività di giudizio, l’infondatezza dell’accusa di plagio. Francis Rugh Grant (1897-1993), intellettuale e attivista a sostegno del panamericanismo a stelle e strisce, fondatore quindi nel ’30 della “Pan american women’s association” e nel ’50 della “Inter-american association for democracy and freedom”, aveva scritto nel ’41 un cosiddetto articolo bomba su “The New York times book review”, dove aveva preso di mira Daphne du Maurier a vantaggio di Carolina Nabuco. In questo testo lui si chiede quanto accidentali possano essere le coincidenze tra i due esaminati qui romanzi di tali due scrittrici, di allora recente pubblicazione. Ammira la famiglia dei Nabuco, apprezzata negli USA per via dell’attività politico-amministrativa, e a proposito dell’autrice brasiliana ci informa che la traduzione in inglese de “A sucessora”, in vista di pubblicazioni poi rifiutate, era giunta negli USA e in Inghilterra. Di fronte ai respingimenti motivati dalla brevità del testo in relazione alle preferenze dei lettori anglofoni, la non piacevole sorpresa per Carolina Nabuco fu quella di apprendere di “Rebecca” e della di esso successiva diffusione dal ’40, volto in portoghese, in Brasile. Qua le somiglianze fra le due opere hanno animato una viva reazione contro l’autrice inglese, reazione che Grant ripercorre nell’evidenziare le analogie anzidette. Con tutto il rispetto verso un altro uomo di studi attento alla vita sociale, non condivido i suoi giudizi nel merito letterario, in linea con le mie riflessioni critiche. Non saprei dire la maniera in cui “A sucessora” possa essere eventualmente giunto fino a Daphne du Maurier; posso ribadire la mia impressione che ella l’abbia letto, alla luce della mia analisi parallela di “Rebecca”: non è impossibile che lei l’abbia visto in portoghese, forse una copia provenuta dal Portogallo, e che poi tutta la polemica e la vicenda giudiziaria a latere sopra menzionata l’abbiano indotta, essendosi vista fraintesa (o attaccata dai tradizionalisti panamericani), per senso di cautela, a non ammettere la possibile sua lettura del comunque pubblicato romanzo di Carolina Nabuco. Un pesante accusatore critico di Daphne du Maurier è stato Álvaro de Barros Lins (1912-1970), intellettuale poliedrico brasiliano uscito da un collegio di studi salesiano prima di studiare Legge. Costui, che nella sua vita fu una personalità di alto spicco nel Brasile novecentesco, ha ripetuto più o meno le stesse cose di Grant accresciute per intensità caustica, in un suo scritto intitolato “‘Rebecca’, um plágio” e contenuto in una sua opera che raccoglie vari testi edita nel 1941. Si trattava di un uomo che a quell’epoca aveva ricevuto l’apprezzamento di George Bernanos (1888-1948; un considerevole esponente del Cattolicesimo vissuto in Brasile tra il ’38 e il ’45). Io credo, nella mia modestia intellettuale, che sostenere la tesi del plagio sulla limitata chiusa base del raffronto di superficie comporti un blocco prematuro dell’analisi, il quale impedisce di andare in profondità dove poter osservare meglio i meccanismi concettuali operanti e quel nesso dialettico tra “A sucessora” e “Rebecca” che ho descritto.




NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Ritorno critico”