di DANILO CARUSO
Parlare
del concetto di
“cittadino” e della coscienza che ogni essere umano civile ha di
questa sua dimensione è un tema delicato soprattutto se ci troviamo di fronte a
contesti degenerati non molto distanti dal tramutarsi in forme distopiche. Il
generale Perón spiegò una volta che in relazione a una comunità umana
“comandare” significa “obbligare”, “condurre” invece “persuadere”, e che pertanto
è meglio fare persuasi gli uomini piuttosto che obbligarli. Ciò vuol dire
che l’informazione e l’educazione del cittadino sono momenti imprescindibili di
una crescita collettiva, e che essi vadano generalizzati non in qualità di
concessione di un beneficio, bensì a tutela della dignità umana – universalmente
in primis – e di conseguenza dei diritti di un soggetto inserito in uno schema
sociale (da quello nazionale a quello locale). Governare un popolo alla stregua
del responsabile di una fattoria di animali non produrrà mai vera democrazia e
non sempre benessere. Quest’ultimo obiettivo rappresenta il problema centrale:
se i diritti dei cittadini non vengono soddisfatti, non c’è traduzione della
teoria democratica (e appare evidente dal fatto che nessuno vorrebbe il proprio
male). Perciò chi vuole il riconoscimento di un popolo servito a dovere – come
sottolinea Hegel nella “Fenomenologia dello Spirito” – deve ottenere un tale
atto nei confronti del suo operato da individui non subordinati, ma resi a lui
omogenei. Coloro i quali sconoscono la sostanza di una questione si ritrarranno
nell’ignoranza, non sapendo cosa dire e in che modo reagire, e rassegnandosi a
direttive a volte percepite non buone. Quando Hegel afferma che il “signore”
usa male la libertà derivatagli dalla sua superiorità per mantenere gli altri
nell’inferiorità della servitù non sbaglia a evidenziare lo squilibrio da costui
arrecato all’armonia sociale e la compromissione della base del suo stesso
potere: il comandare un subalterno non è l’identica cosa di persuadere un
simile. Appare dunque chiaro che se la maggior parte della gente rimarrà
all’oscuro di conoscenze adeguate e opportune in maniera alquanto difficile
riuscirà a far valere i suoi diritti e si degraderà a un ingenuo donatore di
consenso elettorale. Ovunque un dibattito mirante a una petizione di giustizia
sociale dovrà ampliarsi il più possibile e porre i partecipanti sul medesimo
piano: questo il senso dell’antica democrazia in Grecia, cui oggi si richiama
la moderna. Se l’approccio alla comunità viene fatto dall’alto verso il basso,
una tale discesa non è democratica; se si innalza il popolo a un livello medio
più consapevole, di certo la politica clientelare ci perderà, però la società
sarà migliore: non si darà ancora molto spazio a incantatori di teste vuote. Mi
piace ricordare tipico dello Spirito hegeliano il mettersi in casa il negativo
(il limite): nel modo accennato sopra della dialettica servo-padrone, tutti
quelli che non hanno davanti a sé un pari con cui misurarsi si tramutano in
usurpatori, tiranni i quali saranno periodicamente rovesciati. Il
riconoscimento se non viene in maniera simmetrica, come al cospetto di uno
specchio pulito, non genererà democrazia (e forse neanche benessere):
l’asimmetricità dello specchio sporco del padrone, che riflette a chi gli sta innanzi
solo la coscienza animale (non spirituale), dà origine a tutta una casistica
nota attraverso i mass-media. Qualsiasi consorzio sociale strutturato non sul
valore delle idee e dell’intelligenza si degrada e si corrompe in forme
ingiuste e sperequative. Si potrebbe obiettare che sia difficile governare, e
comunque sia preferibile lasciare l’onere/onore a certa casta del settore, che
chi non ha governato non possa giudicare obiettivamente; ma almeno chi non ha
governato, ed è stato spettatore (anche critico), non ha avuto modo di
dimostrare la propria presunta incapacità, la quale, reale nell’attuazione di
scempi, non ha tuttavia sempre comportato che i suoi protagonisti si mettessero
da parte. Un popolo cresce se istruito e difeso, viceversa farà la fine
dell’orwelliana animal farm, dove tutti gli animali alla fine erano uguali, ma
alcuni erano più uguali di altri. A proposito della dicotomia “politico/non
politico” voglio esprimere una piccola valutazione rifacentesi all’idea
aristotelica secondo cui di per sé ciascun essere umano (associato) sia un
“animale politico”. Ogni cittadino che vive in società è “politico”, e se la
sovranità risiede nel popolo, lo è a maggior ragione. L’amministrazione di un
ente non esaurisce e circoscrive in sé la politica, né tanto meno l’unico tipo
politico è l’amministratore. Il primo “politico” è l’elettore, il quale delega
a rappresentanti un potere di governo. Penso si sbagli quando si percepisce il
governante estraneo, o peggio ancora ostile: chi l’ha eletto, in tali casi,
soffre l’incapacità di darsi autogoverno giusto e proficuo. Hegel chiamerebbe
questa alienazione non positiva della facoltà di dirigere la società “coscienza
infelice”. Credo bisogni superare l’infelicità di vedere negli amministratori
degli alieni insediati dal destino a costituire una sorta di signoria
rinascimentale. Se si vuole ragionare di politica tutti quelli che lo fanno
sono “politici” per natura: nessuno è interdetto dalla possibilità di esprimere
argomenti sensati o di ottenere incarichi di governo in modo automatico perché
una parte impropria e non esclusiva di politica si arrocca dietro una torre ritenuta
dalla gente comune inespugnabile. È indubbio che la tecnica di governo richieda
conoscenze particolari e specifiche (e che lo studio serva a ciò), tuttavia non
è benefico che la moltitudine a volte si disinteressi e si squalifichi al
cospetto di una sostanza la quale non è dappertutto e in ogni caso il massimo
dell’eccellenza. Il desiderio naturale di ogni cittadino è di essere ben
amministrato; in democrazia il buon governo dovrebbe iniziare da lui: primo a
essere “politico”, autore di una concessione di potere – chi amministra opera “alieni
iuris” – che risiede coagulato nell’unione della razionalità soggettiva. Per
non essere politici basta privarsi dell’intelligenza e vivere a guisa di bestie,
altrimenti tutti sono “politici” e hanno responsabilità di fronte alla comunità
grazie alle scelte e al voto espressi. Sembra perciò deviante mettere a priori
in luce o in ombra la parola di qualsiasi politico italiano: potrà dire e/o
fare cose buone e utili, o essere ipocrita e non attenersi al bene pubblico. Il
criterio di giudizio ritenuto da me migliore scaturisce dalla considerazione
della bontà, della qualità della proposta o dell’operato: a chi ha servito il
popolo in maniera eccellente andrà il plauso, riguardo a chi non lo ha fatto si
deve comprendere che non è un irremovibile, una maledizione del fato. La prima
cosa di cui prendere coscienza è che una comunità non è tale se non è
corresponsabile delle sue sorti (che cosa c’è di serio in comune?). Se si
istituiscono dei gradi tra persone, in favore di alcune che sanno fare di più e
capiscono meglio nell’ambito amministrativo, quale senso ha la decantata
uguaglianza, la democrazia elettiva, nel momento in cui l’elettore si riduce a
personaggio di una finzione?