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mercoledì 15 giugno 2016

LO SPECCHIO SPORCO DEL PADRONE

di DANILO CARUSO

Parlare del concetto di “cittadino” e della coscienza che ogni essere umano civile ha di questa sua dimensione è un tema delicato soprattutto se ci troviamo di fronte a contesti degenerati non molto distanti dal tramutarsi in forme distopiche. Il generale Perón spiegò una volta che in relazione a una comunità umana “comandare” significa “obbligare”, “condurre” invece “persuadere”, e che pertanto è meglio fare persuasi gli uomini piuttosto che obbligarli. Ciò vuol dire che l’informazione e l’educazione del cittadino sono momenti imprescindibili di una crescita collettiva, e che essi vadano generalizzati non in qualità di concessione di un beneficio, bensì a tutela della dignità umana – universalmente in primis – e di conseguenza dei diritti di un soggetto inserito in uno schema sociale (da quello nazionale a quello locale). Governare un popolo alla stregua del responsabile di una fattoria di animali non produrrà mai vera democrazia e non sempre benessere. Quest’ultimo obiettivo rappresenta il problema centrale: se i diritti dei cittadini non vengono soddisfatti, non c’è traduzione della teoria democratica (e appare evidente dal fatto che nessuno vorrebbe il proprio male). Perciò chi vuole il riconoscimento di un popolo servito a dovere – come sottolinea Hegel nella “Fenomenologia dello Spirito” – deve ottenere un tale atto nei confronti del suo operato da individui non subordinati, ma resi a lui omogenei. Coloro i quali sconoscono la sostanza di una questione si ritrarranno nell’ignoranza, non sapendo cosa dire e in che modo reagire, e rassegnandosi a direttive a volte percepite non buone. Quando Hegel afferma che il “signore” usa male la libertà derivatagli dalla sua superiorità per mantenere gli altri nell’inferiorità della servitù non sbaglia a evidenziare lo squilibrio da costui arrecato all’armonia sociale e la compromissione della base del suo stesso potere: il comandare un subalterno non è l’identica cosa di persuadere un simile. Appare dunque chiaro che se la maggior parte della gente rimarrà all’oscuro di conoscenze adeguate e opportune in maniera alquanto difficile riuscirà a far valere i suoi diritti e si degraderà a un ingenuo donatore di consenso elettorale. Ovunque un dibattito mirante a una petizione di giustizia sociale dovrà ampliarsi il più possibile e porre i partecipanti sul medesimo piano: questo il senso dell’antica democrazia in Grecia, cui oggi si richiama la moderna. Se l’approccio alla comunità viene fatto dall’alto verso il basso, una tale discesa non è democratica; se si innalza il popolo a un livello medio più consapevole, di certo la politica clientelare ci perderà, però la società sarà migliore: non si darà ancora molto spazio a incantatori di teste vuote. Mi piace ricordare tipico dello Spirito hegeliano il mettersi in casa il negativo (il limite): nel modo accennato sopra della dialettica servo-padrone, tutti quelli che non hanno davanti a sé un pari con cui misurarsi si tramutano in usurpatori, tiranni i quali saranno periodicamente rovesciati. Il riconoscimento se non viene in maniera simmetrica, come al cospetto di uno specchio pulito, non genererà democrazia (e forse neanche benessere): l’asimmetricità dello specchio sporco del padrone, che riflette a chi gli sta innanzi solo la coscienza animale (non spirituale), dà origine a tutta una casistica nota attraverso i mass-media. Qualsiasi consorzio sociale strutturato non sul valore delle idee e dell’intelligenza si degrada e si corrompe in forme ingiuste e sperequative. Si potrebbe obiettare che sia difficile governare, e comunque sia preferibile lasciare l’onere/onore a certa casta del settore, che chi non ha governato non possa giudicare obiettivamente; ma almeno chi non ha governato, ed è stato spettatore (anche critico), non ha avuto modo di dimostrare la propria presunta incapacità, la quale, reale nell’attuazione di scempi, non ha tuttavia sempre comportato che i suoi protagonisti si mettessero da parte. Un popolo cresce se istruito e difeso, viceversa farà la fine dell’orwelliana animal farm, dove tutti gli animali alla fine erano uguali, ma alcuni erano più uguali di altri. A proposito della dicotomia “politico/non politico” voglio esprimere una piccola valutazione rifacentesi all’idea aristotelica secondo cui di per sé ciascun essere umano (associato) sia un “animale politico”. Ogni cittadino che vive in società è “politico”, e se la sovranità risiede nel popolo, lo è a maggior ragione. L’amministrazione di un ente non esaurisce e circoscrive in sé la politica, né tanto meno l’unico tipo politico è l’amministratore. Il primo “politico” è l’elettore, il quale delega a rappresentanti un potere di governo. Penso si sbagli quando si percepisce il governante estraneo, o peggio ancora ostile: chi l’ha eletto, in tali casi, soffre l’incapacità di darsi autogoverno giusto e proficuo. Hegel chiamerebbe questa alienazione non positiva della facoltà di dirigere la società “coscienza infelice”. Credo bisogni superare l’infelicità di vedere negli amministratori degli alieni insediati dal destino a costituire una sorta di signoria rinascimentale. Se si vuole ragionare di politica tutti quelli che lo fanno sono “politici” per natura: nessuno è interdetto dalla possibilità di esprimere argomenti sensati o di ottenere incarichi di governo in modo automatico perché una parte impropria e non esclusiva di politica si arrocca dietro una torre ritenuta dalla gente comune inespugnabile. È indubbio che la tecnica di governo richieda conoscenze particolari e specifiche (e che lo studio serva a ciò), tuttavia non è benefico che la moltitudine a volte si disinteressi e si squalifichi al cospetto di una sostanza la quale non è dappertutto e in ogni caso il massimo dell’eccellenza. Il desiderio naturale di ogni cittadino è di essere ben amministrato; in democrazia il buon governo dovrebbe iniziare da lui: primo a essere “politico”, autore di una concessione di potere – chi amministra opera “alieni iuris” – che risiede coagulato nell’unione della razionalità soggettiva. Per non essere politici basta privarsi dell’intelligenza e vivere a guisa di bestie, altrimenti tutti sono “politici” e hanno responsabilità di fronte alla comunità grazie alle scelte e al voto espressi. Sembra perciò deviante mettere a priori in luce o in ombra la parola di qualsiasi politico italiano: potrà dire e/o fare cose buone e utili, o essere ipocrita e non attenersi al bene pubblico. Il criterio di giudizio ritenuto da me migliore scaturisce dalla considerazione della bontà, della qualità della proposta o dell’operato: a chi ha servito il popolo in maniera eccellente andrà il plauso, riguardo a chi non lo ha fatto si deve comprendere che non è un irremovibile, una maledizione del fato. La prima cosa di cui prendere coscienza è che una comunità non è tale se non è corresponsabile delle sue sorti (che cosa c’è di serio in comune?). Se si istituiscono dei gradi tra persone, in favore di alcune che sanno fare di più e capiscono meglio nell’ambito amministrativo, quale senso ha la decantata uguaglianza, la democrazia elettiva, nel momento in cui l’elettore si riduce a personaggio di una finzione?