Nella giurisprudenza italiana in virtù della legge 248 del 18 agosto 2000 anche i testi pubblicati su internet godono della tutela del diritto d’autore già stabilito dalla precedente legge 633 del 22 aprile 1941. La loro riproduzione integrale o parziale è pertanto libera in presenza di scopi culturali e al di là di contesti di lucro, da questo lecito uso fuori del consenso dello scrittore si devono necessariamente poter evincere i seguenti dati: il link del testo, il titolo, l’autore e la data di pubblicazione; il link della homepage del suo contenitore web. Copiare non rispettando queste elementari norme rappresenta un illecito.

sabato 1 luglio 2023

LO STRANO CRISTIANESIMO DEL “TITO ANDRONICO” SHAKESPEARIANO

di DANILO CARUSO
 
Il “Titus Andronicus”, tragedia attribuita a William Shakespeare, rappresenta un’opera teatrale richiedente una ponderata analisi volta a farne emergere le sottostanti radici concettuali, le quali devono essere quelle della forma mentis dell’autore del testo, e non quelle provenienti da un’operazione di lettura ed esame ermeneutico con categorie culturali di altri tempi e altri contesti posteriori estranei. Il “Tito Andronico” shakespeariano così inquadrato figura tra le cose peggiori che io abbia letto, e ne illustrerò con chiarezza analitica il perché. Voglio cominciare la mia esposizione dei miei pensieri critici rilevando nella tragedia una dicotomia canonica negli ambienti di cultura cristianizzata e cristiana: la divisione della gente in “buoni” e “cattivi”. Su un fronte sono indicati tutti i cattivi, le loro colpe e i loro difetti. Gli altri, che hanno effettuato tale selezione morale, risultano dunque essere i buoni sine macula. L’Occidente – sia che fosse protestante sia che fosse cattolico – da quand’è cristiano continua a proporre simile rigida dicotomia nella morale e nella politica, nei fatti interni e in quelli esteri. Io reputo questo modello interpretativo molto inappropriato, in quanto frutto di radicalismo nevrotico religioso. A mio modesto sentire non esistono realtà angelicate che combattono, al pari degli eroi dei fumetti, contro un raggruppamento di demoniaci farabutti. La realtà mi sembra più complessa e di difficile comprensione a sguardi superficiali, ingenui, ignoranti. Ho notato nel caso del “Titus Andronicus” che le stesse nefande condotte se attuate dai buoni producono azioni moralmente buone, se viceversa sono i cattivi a macchiarsi di gravissime colpe analoghe (e ovviamente restano sempre ingiustificabili e da condannare) sono ritenuti responsabili in negativo. È chiaro che il problema è costituito dai primi, da una loro non corretta valutazione. Vedremo subito meglio come il cruento comportamento dei buoni non possa essere qualificato positivo. Se andiamo a guardare con sincero occhio critico l’apertura della tragedia analizzata non possiamo negare che tutte le vicende traggano origine da una decisione inaccettabile assunta da Tito Andronico. Egli sta nello schieramento dei buoni, vive in un Impero romano ormai cristiano, e chiede di sacrificare il primogenito della sconfitta regina nemica Tamora in memoria dei di lui figli caduti nello scontro coi Goti. Un cristiano ha preteso un sacrificio umano: non quadra niente davanti alla ragionevolezza. Certamente possiamo pensare al veterotestamentario caso della figlia di Iefte, ma una tale organicità rappresenterebbe l’ennesimo inciampo dei cosiddetti buoni al cospetto di una morale molto più sensata e ragionevole quale quella kantiana. Se ancora all’epoca shakespeariana è possibile comunemente pensare l’uccisione di un individuo umano in maniera leggera, quasi fosse un ludo offerto dalla giustizia (secolare o divina), ai nostri tempi in cui possiede cittadinanza migliore riflessione illuministica non possiamo fare a meno nell’esame di evidenziare quei limiti nella vita sociale, limiti i quali io giudico molto gravi. Il diritto alla vita, all’integrità personale, alla salute rimangono diritti di un condannato che espia una pena in una struttura di reclusione. Non è mai stato lecito ammazzare e/o torturare qualcuno/a con procedure pseudogiudiziarie. Tuttavia nel “Titus Andronicus” l’omonimo protagonista non sfoggia la moderna intesa carità evangelica, per lui appare caritatevole sacrificare un altro umano vivo – al pari di Iefte o come stava operando Abramo – alla memoria dei suoi figli defunti. Se si mette in scena un incipit simile in un ambiente di formazione cristiana (non riveste particolare importanza che sia a vocazione protestante), e non ci si preoccupa di eventuali reazioni avverse, allora v’è da reputare che si sta dando alla massa in pasto ciò che vorrebbe mangiare. Se in quell’era a essa piaceva, io oggigiorno lo giudico disgustosissimo. Nella tragedia, nel momento in cui Tamora cerca di salvare il figlio dall’inumana volontà di Tito Andronico ella conclude che la “pietas” di lui si mostra “irreligiosa” e “crudele”. Ce l’ha appena detto la cattiva Tamora, perciò quel sacrificio in ambiente cristiano, nella logica di Shakespeare accettata da quelli che gli stavano attorno, è canonico e giusto: si può sacrificare tranquillamente la figlia di Iefte. Quando in seguito alcuni mostri ne fanno emergere altri, di che cosa ci si stupisce? Resto enormemente contrariato a vedere che fra i buoni i mostri tendano a rimanere buoni, e lo rileveremo più avanti con rinnovata mia disapprovazione. Comprendere le dinamiche genetiche del comportamento dei cattivi naturalmente non equivale a sollevarli dalle loro responsabilità. Ciò vale per la realtà e pure per le fiction. Nel “Tito Andronico” voglio però evidenziare con quale spirito sia stato costruito il personaggio di Aronne, l’amante di Tamora. Io considero il negativo spirito suprematista bianco che lo informa, e dico negativo a indicare il contrasto poiché lui è un nero, estremamente vergognoso. L’autore della tragedia ha letteralmente paragonato un uomo in relazione al colore della sua pelle a un diavolo infernale. Il suprematismo bianco, che c’era e c’è negli USA, proviene da quello dei coloni inglesi. L’inqualificabile costruzione del personaggio di Aronne, connotato nella tragedia in modo innegabilmente diabolico, ci dice parecchio in quale guisa pensassero gli Inglesi sulle due sponde dell’Atlantico settentrionale. Il nero Aronne nella sua vocazione a progettare il male si rivela surreale. Sotto il profilo psicanalitico appare degno di un romanzo sadiano. La sua abnormità psichica, tendenziosamente per spirito suprematista bianco, collegata dall’autore della tragedia al colore nero della pelle, ci spalanca una nuova porta critica: tematiche sadiste sono variamente presenti nel testo shakespeariano1. Aronne parla come un mostro sadico e induce i due rimanenti figli di Tamora a stuprare Lavinia, la figlia di Tito Andronico. Pure Tamora approva l’iniziativa. Cosicché seguendo un copione sadista per psicopatici fruitori i due mostri la violentano, quindi le tagliano la lingua e le mani. A questo punto formulo la domanda sottintesa: che specie di gente andava a guardare rappresentazioni teatrali del genere allo scopo di svagarsi? Il “Titus Andronicus” è un’opera sadista. Tra tutti i dettagli di sadismo presenti nel testo, e in conclusione ne segnalerò altresì a carico di Tito Andronico, mi ha colpito di trovare la meno psicopatologica delle analogie: una menzione significativa dell’Etna. Tant’è che ipotizzo che D. A. F.  de Sade possa aver letto questa discutibilissima tragedia shakespeariana, la quale gli abbia lasciato suggestioni. Comunque, adesso passiamo al personaggio di Tamora. Analogamente al suo amante nero anche lei incarna un altro topos negativo. Se ai neri schiavizzati nella realtà si prospetta l’etichetta di diavoli infernali, a Tamora tocca la più classica elaborata dalla misoginia cristiana: lei è l’amante del Diavolo, è la lussuriosa senza limite porta dell’inferno. Simile circolo di idee messe in scena a fine propagandistico razzista e misogino mi lascia molto urtato nel tempo in cui lamentiamo ancora questi mali, e soprattutto a vederne vecchie radici. Tamora e Aronne rappresentano due exempla di pregiudizi. Una mente equilibrata all’epoca shakespeariana non avrebbe prodotto una tale tragedia dove il figlio nero dei due (lei è bianca) viene descritto in una maniera cristianamente tutt’altro che convenzionale: viene accostato a un animale che non fa pendant con la bianchezza dei buoni. Questa vomitevole chicca suprematista dovrebbe indurci a riflettere quando leggiamo qualsiasi cosa: parlando in generale, non è difficile manipolare i lettori i quali non verificano su eventuali originali in altre lingue, né è altrettanto difficile indurre a interpretazioni deviate e devianti chi sconosce la storia studiata bene. Se volessi fare un paragone del “Titus Andronicus” shakespeariano con un’altra opera formalmente simili nelle intenzioni, indicherei il “Tractatus adversus Judaeos” di Agostino d’Ippona2. Non mi pare positivo il fatto di consentire a questi grandi classici (?) della cultura occidentale l’etichetta di buoni per tutte le ruote allorché, ammesso che abbiano scritto pure qualcosa di apprezzabile, tra i loro scritti si trovano monumentali bestialità. Si chiama onestà intellettuale e ci restituisce una verità più vera e meno gnostica: i buoni non sono santi al 100%; i cattivi non sono usciti dall’inferno, e a volte potrebbero magari mostrarsi migliori dei primi se posti sotto diversa luce. Non è il caso del “Titus Andronicus”, dove due schieramenti di simile valore negativo si misurano. È dalla parte dei buoni che viene fuori l’idea, a quanto pare buona (?), di uccidere il neonato nero. Tale gravissimo crimine si chiama infanticidio, e sta là a ornamento narrativo avanzato dai buoni. Se i cattivi sono sadici, i buoni non scherzano. Studiando la civiltà occidentale e i suoi prodotti culturali ho capito che occorreva una ermeneutica contestuale, e che al riguardo delle società cristianizzate i più non ne capiscono l’evoluzione. Nella nostra era la massa pensa la carità evangelica e i valori cristiani come contenuti positivi. Perlopiù è ormai così ora: regnano spiriti conviviali nei gruppi, la religiosità si accompagna a lieti momenti consumistici e di divertissement. Si cerca di pensare altresì ai bisognosi in qualche circostanza, ma senza turbare il clima festoso con idee fuori mano (del tipo: abolire le banche private). In effetti il Cristianesimo ha camminato sempre da Costantino in avanti accanto al potere politico. Sino all’epoca illuministica è stato dominante, successivamente è iniziato il declino a vantaggio del liberalcapitalismo vicino al Protestantesimo (Weber). Puntualizzo ciò per rammentare che le evoluzioni sociali dei contesti cristiani non sono tutte uguali. Ciò che intendo dire è che quanto oggi si intende con carità evangelica e valori religiosi cristiani non costituisce la medesima cosa di era anteilluministica. V’è stato un graduale passaggio di correzioni di posizioni nei cristianesimi durante l’Ottocento e il Novecento fino a giungere a oggi dove in luogo di roghi e torture di streghe, omosessuali, eretici, non allineati, ci sono panettoni, colombe e uova di pasqua festosamente scambiati in dono. Ai tempi di Shakespeare le categorie ideali del Cristianesimo erano altre. Quelle le quali possiamo osservare nel “Titus Andronicus”, per me un monumento di radicalismo nevrotico e pregiudiziale di ascendenza religiosa. Qualcuno potrebbe replicarmi che quello fu cristianesimo mal capito. Con tutto il rispetto, modestamente secondo me, altri hanno mal compreso il Cristianesimo preilluministico. Una delle primissime novità del morente Impero romano assorto alla religione unica di Stato fu il rogo riservato agli omosessuali, per dirne una. Per dirne un’altra: è nota la plurisecolare “mal comprensione” dello schiavismo, non condannato dalla Bibbia, e ritenuto dunque lecito troppo a lungo per poter ipotizzare quest’idea fantasiosa di “mal comprensione”. In alcune circostanze le cose sono quelle che appaiono, basta verificare bene, però girarci attorno non serve a gran che nel tentativo di salvataggio3. Il Dio biblico uccide tutti i primogeniti degli Egizi: che problema c’è nella logica shakespeariana a proporre con disinvoltura l’uccisione di un neonato nero figlio di un diavolo e della porta dell’inferno? Risposta: a quanto pare, nessuno. È una cosa che i buoni possono fare. Su questa falsariga viene consentito a Tito Andronico di giurare odio sino alla vendetta. Il fratello di costui mostra persino toni xenofobici. Loro, essendo i buoni, possono fare e dire quello che vogliono. Mentre i cattivi sadici stupratori Chirone e Demetrio vengono accusati di aver ereditato dalla madre la loro natura deviata e ipocrita, il che produce l’ennesimo esempio della feroce misoginia di quest’opera teatrale. Neanche a Lavinia, la figlia di Tito Andronico, è riservato un trattamento di favore in qualità di vittima, come vedremo, nel finale della tragedia. Il suo personaggio, così orrendamente trattato, alla nostra più moderna matura sensibilità suscita uno spirito di immediata solidarietà emotiva. Ma in quell’epoca dove le donne si potevano facilmente torturare e uccidere per stregoneria, io reputo che la figura di Lavinia colpita fosse percepita diversamente. Una società che causa il massacro di Salem non rispetta le donne, non pensa come noi. Pensa invece che queste innanzitutto si possano torturare e ammazzare in forza di assurde motivazioni religiose oscuranti una lucida razionalità e impedienti il suo valido uso. Il caso di Lavinia costituisce exemplum del modo in cui la vecchia cultura cristiana misogina potesse pretendere e mettere, poi a parte nella realtà, in atto qualsiasi forma di violenza sopra il corpo femminile. Non posso giudicare altrimenti la proposizione al pubblico di allora di simili contenuti sadici senza sospettarne assuefazione. È come se si volesse rendere convenzionale la violenza estrema a danno del gentil sesso, a prescindere dalla fonte: le donne sono porte dell’inferno ontologicamente e quanto meno in potenza, a colpirne una si colpirebbe sempre un soggetto di natura diabolica, per cui non vale la pena prendersela così tanto. E infatti noteremo che a Tito Andronico non interessa vendicare la figlia in quanto donna offesa, a lui interessa vendicarsi dello stupro (per cui sua figlia avrebbe perso la sua purezza originaria) e dell’offesa familiare di ritorno. Lui stesso ci dice che le mutilazioni patite da Lavinia sono inferiori alla perdita della castità. Quando uno si esprime in siffatta guisa convalida tutti i miei ragionamenti. Che Cristianesimo è quello che autorizza Tito Andronico a usare i cadaveri di Demetrio e Chirone per farne pietanze da offrire a Tamora? Ciò è puro sadismo. Se la tragedia greca possedeva uno scopo catartico, qua invece si fa propaganda di misoginia, razzismo, xenofobia, e si offre al fruitore macabro compiacimento. Siamo agli antipodi: se da un canto esisteva un fine pedagogico, qui l’obiettivo si rivela differente. Manipolare e adescare il pubblico in direzione di contenuti estremi e psicopatologici. I moderni possono rileggere il “Titus Andronicus” alla luce della forte simpatia verso Lavinia, mettendo in secondo piano tutto il resto come fosse acqua passata. Però così non capiremo molto, a cominciare dal passato le cui radici archetipiche si prolungano sino a oggi. Non potremo mai capire il presente al di fuori di un’adeguata conoscenza del passato. Io credo ad esempio che i femminicidi che si verificano ai nostri tempi in Italia siano il prodotto di una sedimentazione di inerzia comportamentale maschilistica e misogina di cui si è smarrita la visione della radice nevrotico-religiosa sepolta dai secoli e dall’ignoranza storica. Per comprendere le cose c’è da scavare, la superficie non dà tutta la verità. Prima di passare alla conclusione della mia analisi c’è un dettaglio testuale della tragedia esaminata che vorrei far notare, principalmente nell’ottica della mia trattazione. Ho parlato di Lavinia quale un personaggio nella costruzione shakespeariana non molto tutelato nella sua femminilità personale. Il senso di quest’offesa completa il testo lo esprime in un punto preciso, laddove lo zio Marco trova Lavinia violentata dai due mostri sadici e la definisce «cervo che ha ricevuto alcune ferite incurabili». Non so se qualcuno prima di me abbia rilevato l’analogia con “Il cervo ferito” di Frida Kahlo. Il dipinto kahloista ci comunica la condizione di Lavinia, giacché rileva la femminilità offesa e ferita in ogni tempo e in ogni dove in un’immagine concreta pittorica. Questa è comunque imago unisex poiché l’ho ritrovata pure nel “Frankenstein; or, the modern Prometheus” di Mary Shelley in relazione al protagonista scienziato. Il cervo ferito rappresenta un simbolo junghiano dell’umanità in generale offesa e ferita. Dopo aver evidenziato le aberrazioni di gran parte del “Titus Andronicus” mi resta di visitarne il finale alla luce di quanto ho scritto sinora. In tale finale di tragedia compare una chicca di fatalismo protestante protoweberiano. Ma mi voglio soffermare meglio sulle bestialità di Tito Andronico. Quando costui definisce Tamora «madre di cani usciti dall’inferno», mi fa pensare al Gesù evangelico che insegnò a non dare le cose sante alle cagne (secondo me il sostantivo del testo greco biblico è al femminile). Dalle bestialità dette (perché Tito Andronico dimentica che è stato lui il primo a uccidere e a innescare il meccanismo tragico) passiamo alle bestialità fatte alla fine. Dopo aver fatto mangiare a Tamora a di lei insaputa le carni dei figli preparate ad hoc nel migliore stile sadico (però rammentiamo che lui appartiene all’esercito dei buoni) uccide ex abrupto la figlia, in quanto, a detta di lui, avendo perso la castità costituiva motivo di vergogna e dolore per lui. Questo non è un buono, è buono per la detenzione di criminali psicopatici. Tuttavia l’impostazione dicotomica narrativa della tragedia ci spiega che è giusto compiere determinate per noi moderni ormai nefandezze giacché una morale nevrotica religiosa esige condotte da folli. Tito Andronico trova la faccia di affermare che i reali assassini siano stati de facto Demetrio e Chirone col loro sadico gesto. Il “Titus Andronicus”, in parole povere, sta proponendo, per bocca dei buoni, l’eutanasia a carico delle fanciulle violentate. Un femminicidio a Tito Andronico non basta e ammazza pure Tamora. Che cosa avrebbe dovuto imparare di utile la gente del popolo a guardare simile sadico surrealismo orrorifico? A diventare più insensibile e accondiscendente verso un regime misogino e razzista? In un irreale gioco di uccisioni la tragedia si chiude con le altri morti di Tito Andronico e dell’imperatore. Un figlio del primo prende il posto del secondo: i buoni (?) sono salvi e possono fare giustizia (il resto di sadica vendetta). In particolare al cadavere di Tamora tocca una sorte simile a quella della regina Gezabele. La conformità religiosa è stata fatta salva. Soprattutto se pensiamo al Gesù evangelico il quale sostenne di non essere venuto a portare pace bensì spada. Tutti i morti ammazzati della conclusione del “Titus Andronicus” si mostrano “canonici”. L’importante è che i buoni trionfino, poi se c’è una logica malata in tale pretesa, all’epoca, pare non lo percepissero in molti. C’è voluto l’Illuminismo al fine di cominciare un percorso migliore e diverso per l’Occidente, cammino che tuttavia a tutt’oggi, nonostante larghissimi miglioramenti, resta ancora da completare.
 
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Analisi letterarie e filosofiche”
 
1 Circa un approfondimento sul sadismo indico un mio studio: La tanatolatria di de Sade contenuto nella mia monografia Filosofie sadiche (2021).
 
2 A chi interessasse approfondire il paragone consiglio la lettura di un mio lavoro: Nevrosi e irrazionalismo in Agostino d’Ippona presente nel mio saggio intitolato Teologia analitica (2020).
 
3 Reputo utile al lettore ricordare una mia analisi pubblicata dentro la mia opera menzionata nella nota precedente, recante il titolo Aristotele e il pericoloso regno di Dio.