di DANILO CARUSO
Tempo addietro scrissi un saggio di
critica dantesca dove accennai alla presenza di una traccia di strutturale
antigiudaismo nella “Divina Commedia”1. Là fui abbastanza chiaro
seppur nella circoscrizione offerta da una monografia globale. Qua è mio
intendimento riprendere il mio punto di vista e sviluppare l’argomento in
maniera dettagliata. Da quell’evidente mia idea di base passerò alle facce del
problematico poliedro, al fine di far osservare che non si può far a meno di
tenere nella dovuta considerazione l’antisemitismo cristiano in epoca
medievale, e dunque la sua consequenziale presenza nei prodotti culturali
cattolici di tale era. L’atmosfera antiebraica promossa dal Cristianesimo è
entrata nella “Commedia” perché il suo autore ha seguito canoniche allora linee
guida dottrinali della Chiesa. Nel Cattolicesimo medievale di Dante non si
rivela anormale vedere elementi di antisemitismo, anzi nel caso di un
integralista come lui dobbiamo aspettarcelo. Così detto, li indicherò.
Nell’“Inferno” viene menzionato il «cerchio di Giuda», ossia il nono, quello
dei traditori. Questo appare quadripartito: traditori 1) dei parenti, 2) dello
schieramento in politica, 3) degli amici e degli ospiti, 4) dei benefattori;
con gravità di addebito nella visione dantesca crescente. La quarta zona, la
porzione più profonda dell’inferno, antistante a Lucifero è stata denominata
«Giudecca» dall’autore della “Divina Commedia”. Come ho sottinteso nel mio
saggio sopra rammentato, la semantica della circostanza non va vista in maniera
riduttiva: “Giudecca” perché ci sta Giuda. Ma in una guisa confacente al
contesto storico di presenza del testo: quindi, “Giudecca “ poiché ci stanno
gli Ebrei in genere. Ricordavo là che il termine in questione ha indicato aree
urbane di emarginazione delle genti giudaiche. La stessa cosa capita nell’inferno
di Dante: la Giudecca infera si mostra quale area di espiazione della condanna
eterna degli Ebrei, coloro che, nell’ottica mitologica cristiana, causarono la
morte di Cristo rimanendo legati alla propria originaria tradizione religiosa.
Il vocabolo in questione proviene, nella sua forma volgare dantesca, dal latino
medievale Iudeca, Iudaica in latino classico. Non esistono
ragionevoli motivi per cui si possa concludere che nell’“Inferno” il volgare
“Giudecca” sia da intendersi con una provenienza semantica ed etimologica
diversa e riformata. Una Iudeca/Giudecca
nella realtà è uno spazio urbano di emarginazione, e simile valore di significato
resta quello inserito nella “Divina Commedia”. Dante non riforma l’etimo
convenzionale della parola “Giudecca”, né tanto meno inventa il termine volgare
(allo scopo di indicare il ghetto), nelle cui varianti è esistito in Italia a
prescindere dallo scrittore fiorentino: Giudeca,
Iureca, sempre dal latino medievale Iudeca. La tradizione semantica, dal
latino al volgare, da Iudeca a Giudecca, di una voce indicante un’area
di concentramento, si mostra esterna a Dante. Lo precede e l’accompagna. È lui
a adeguarsi nella volgarizzazione, e a non modificare l’originario peso di
significato. Da quel che osservo la critica dantesca campione in carica accoglie
la riforma dell’etimo e della dimensione semantica di “Giudecca” nell’“Inferno”
grazie a una etimologia d’eccezione (da Giuda,
e non invece da Iudeca/Iudaica nel senso di ghetto), nel
tentativo, immagino, di allontanare lo spettro dell’antisemitismo
(luogo-di-Giuda appare più soft di luogo-di-Giudei) dal testo di un poema, a
mio modestissimo avviso, celebrato in forme esagerate, nascondendo la polvere
sotto il tappeto. In una sua epistola, indirizzata
«Cardinalibus ytalicis», il poeta fiorentino definisce gli «Iudei» con
aspro tono patristico «impietatis fautores» assieme a «Saraceni et gentes»: promotori
di empietà, di oltraggio. Rifiutare il Messia cristiano si rivela il peccato
capitale di tutti le genti giudaiche di ogni epoca rimaste fedeli al proprio
modello religioso canonico. Paolo di Tarso e altri furono Ebrei sostenitori del
nuovo orizzonte del Cristianesimo, perciò chi seguì lui e i primi cristiani fra
il popolo giudeo non è da considerarsi un “traditore”: perfidus, in lingua latina, cioè colui-che-devia-dalla-retta-fides.
Sopra quest’altro aspetto semantico ho parlato in un’altra mia monografia, a
cui rinvio in vista di approfondimento2. Qua proseguo dicendo che
nel cerchio infernale dantesco dei traditori rimane naturale trovarci i
“perfidi Judaei”, i traditori per eccellenza nella nuova discutibile teologia
cristiana. La parola “Giudecca” si mostra, con evidenza, riferibile in guisa
indefinita ai Giudei. Allorché Dante parla del «cerchio di Giuda», per
questioni di versificazione, nell’usare il termine «Giuda» sta adottando un simbolo.
Giuda non rappresenta qui soltanto la persona del dannato che si trova prossimo
alla Giudecca, la quale non da lui prende nome. Egli costituisce il simbolo
di tutti i traditori. Dalla perfidia
(tradimento) degli “Ebrei traditori” origina spunto ideologico alla volta della
denominazione degli spazi di loro segregazione. In una Giudecca urbana non
troviamo l’apostolo traditore, bensì comuni genti ebraiche. Allo stesso modo
deve intendersi il lemma esaminato nella “Commedia”. Non è per me accettabile
una reductio estensiva da tutti a uno nell’etimo. Dante nell’indicare «il
cerchio di Giuda» usa un simbolo. Il che è tipico nella costruzione dantesca
del noto poema, dove allegorie e simboli abbondano. Non vedo la ragione per cui
qua non si debba applicare una analoga abitudinaria chiave di interpretazione:
Virgilio sì, e Giuda no? Dante sembra fare una distinzione in materia di
addebito dei peccati a proposito di Ebrei, considerando come spartiacque la
vicenda del processo di Pilato, la sentenza e l’inerente judaica perfidia. I sacerdoti giudei, «mala sementa», che nei
Vangeli chiedono in precedenza l’eliminazione di Cristo sono collocati dal
poeta fiorentino nell’ottavo cerchio, quello dei fraudolenti, e in particolare
nella bolgia degli ipocriti, la sesta. In seguito al tradimento ufficiale, al
cospetto di Pilato, il Giudeo non convertitosi in vita (il germoglio) va
a finire nella infernale Giudecca. Notiamo qua una precisa operazione compiuta
in linea generale dall’autore della “Divina Commedia”. I capi religiosi ebrei
del tempo di Gesù i quali nella concezione del poeta avrebbero dovuto accettare
la venuta di un presunto Messia (cristiano) vengono accusati di “ipocrisia”:
sono coloro che al contrario avrebbero dovuto spiegare al popolo la bontà
dell’accoglimento e della conversione. La massa giudea, che davanti a Pilato
provoca la condanna di Gesù viene accusata di tradimento (perfidia). Si rileva una sottigliezza concettuale nel sadismo
infernale dantesco. Gli ipocriti religiosi in detta sesta bolgia dell’ottavo
cerchio stanno fissati da tre paletti sulla superficie dello spazio infero, e
gli altri comuni ipocriti vaganti là (sotto il peso di cappe metalliche) gli
passano sopra. Per lo scrittore fiorentino questi Giudei qui meritano il
medesimo destino il quale riservarono alla Verità. Nella Giudecca invece,
quarta fascia del ghiacciato lago di Cocito (posto nel nono cerchio), i dannati
traditori dei benefattori, di cui Dante non menziona esempi concreti di
persone, sono posti per intero sotto il livello della superficie del lago
(punizione provocata dalla estrema freddezza della loro condotta in vita): gli
Ebrei generici lì collocati non inducono l’autore della “Commedia” a citarne
qualcuno, gli basta denominare il posto “Giudecca” e illustrare l’orribile
condanna eterna di Giuda finito nelle dirette mani di Lucifero. L’assenza di
exempla viene giustificata dal fatto che le genti ebraiche vengono inquadrate
nella loro generalità di fede, la quale si riversa nel simbolo “Giuda”: traditore
sì di Cristo in quanto personaggio evangelico puntuale, tuttavia altresì
immagine del globale tradimento del popolo ebreo, nella mentalità cattolica
dantesca. Se i perfidi Judaei
finiscono nella Giudecca, rimane comunque possibile la stessa pena, per peccati
simili, a danno di altri non Ebrei, come testimonierebbe la parallela a Giuda
condanna di Bruto e Cassio, anche loro orribilmente torturati da Lucifero in
persona. Lo scrittore fiorentino valuta giusto privare i Giudei della libera
facoltà di autodeterminarsi in materia di religione. E data la radicale
alternativa che ne scaturisce, l’opposizione del Cristianesimo è stata pesante,
giacché, necessariamente, uno tra nuovo credo e antica fede, deve, a causa di
rispettive impostazioni teologiche, essere ricadente nel campo della falsità.
Ecco gli ipocriti negatori del Messia, i traditori deicidi, colpiti da odio
antisemita. Dante recepisce e assimila da cattolico il clima antiebraico e lo
inserisce nella “Divina Commedia”, dove appunto l’antigiudaismo non si rivela
estraneo. A me l’infernale Giudecca dantesca, nella quale i dannati sono
intrappolati in varia postura, evoca l’inquietante prefigurazione di un lager
nazista. L’ostilità antisemita di Dante traspare in una terzina dell’“Inferno”
dove egli definisce il Papa Bonifacio VIII «lo principe d’i novi Farisei». Il
termine “farisei”, denotante gli appartenenti giudei a una setta dell’Ebraismo
antico, viene adottato dal poeta fiorentino in un’accezione negativa di
confronto (il capo dei nuovi ipocriti,
egli intende dire). Al di là di questo paragone, già indicativo della
considerazioni del poeta nei riguardi del popolo giudeo, quel che viene
appresso, sempre in questa terzina, si mostra ancora più sconcertante. Giacché
Bonifacio VIII, a detta di Dante, sarebbe responsabile di una «guerra presso a
Laterano, / e non con Saracin né con Giudei». In parole povere l’autore della
“Commedia” ha affermato la liceità di un conflitto armato contro gli Ebrei. Che
cosa c’entrano questi con le discutibili Crociate di liberazione della Terra
santa? Pare niente, dunque il riferimento a loro si mostra generico: vale a
dire che per lo scrittore fiorentino è ammissibile la persecuzione giudaica in quanto
rivolta a nemici del Cristianesimo. Allorché Dante adopera il lemma “Saracin”
collegato a “Giudei” fa percepire che ha in mente delle religioni avversarie
dacché l’asse dell’intenzione semantica non appare poi così celato. Il poeta è
stato uno che non ha disprezzato l’uso delle armi nella risoluzione dei
contrasti. Saracin e Giudei sono accomunati dall’essere rivali religiosi in
primis della Chiesa medievale, nella di lui concezione, non dall’essere
avversari politici. Nel pensiero dantesco la religione ha assorbito la
politica, e tutto si misura col metro della prima, come del resto la “Divina Commedia”
docet. Trovarvi elementi di antisemitismo spiritualista cristiano non
costituisce per me motivo di sorpresa. I tempi, erano quelli di un antigiudaismo
della Cristianità il quale rimarrà in auge per molto tempo. Da respingere tali
idee, però non si può isolare Dante e sterilizzarlo: pure lui era un
antisemita, e lo ha fatto notare. Con imparzialità e obiettività non ci resta
altro che mettere in evidenza simili punti nella “Commedia”, e collocarla in un
confacente orizzonte critico, come ho cercato di fare nella mia monografia
dantesca. La quale non pretendeva di distruggere un (falso, secondo me) mito,
bensì porre il cosiddetto Sommo Poeta nel posto appropriato degli spazi letterari
(il quale a ogni modo resta non indifferente). Ai miei occhi Dante si mostra un
fanatico e un estremista religioso e politico, e alla luce di ciò ho compiuto
le mie analisi critiche a lui dedicate. Il poeta fiorentino non è stato esente
dai gravissimi limiti di una cultura e di una formazione cristiane e medievali.
La figura del traditore Giuda viene adoperata in funzione di paragone nel
“Purgatorio”. Esemplare nella seconda cantica una terzina dimostrante
ulteriormente quanto da me sinora sostenuto: «Nel tempo che ’l buon Tito, con
l’aiuto / del sommo rege, vendicò le fóra / ond’uscì ’l sangue per Giuda
venduto». Da essa ricaviamo utilissime informazioni sul pensiero dantesco.
Notiamo che la vittoria romana nella prima guerra giudaica (66-70) viene inserita
dallo scrittore fiorentino in un sistema di considerazioni storiografiche in
toto distorto e nevrotico. Il successo di Roma, a suo dire, sarebbe stato
appoggiato da Dio, desideroso di vendicarsi dell’uccisione del Messia. La prima
cosa da ricordare è che le guerre dei Romani pagani costituivano dei conflitti
meramente politici, e che prima di Costantino la religio christiana non ebbe un
ruolo ispiratore. Non esiste nessun intervento divino nella Prima guerra
giudaica, e de facto nessuna vendetta teologica, ma soltanto un fatto
politico-militare provocato dalla contingenza storica, dall’attaccamento giudeo
alla propria religione in forme esclusive e radicali, e non da una qualche
forma di antisemitismo (i Romani badavano ai fatti, non a creare categorie di
razzismo: gli Ebrei erano avversari in sede politica). Sovvertendo le linee
dinamiche reali, Dante fa dei Romani dei vendicatori cristiani: il che
rappresenta un’idea priva di fondamento. Solo una convenienza ideologica posteriore
può portare a simile convinzione. Laddove nel Cristianesimo regnava simile
visione emerge un modello orwelliano: chi
controlla il presente stabilisce le verità storiche del passato. Così
accade in detta terzina, la quale converte, al di fuori di una base di
obiettività, i Romani vincitori della prima guerra giudaica in antisemiti.
Dante esibisce razzismo spiritualista nella veste di chiave di lettura storica,
la quale lettura, purtroppo per lui, risulta unicamente figlia di nevrosi.
L’autore della “Divina Commedia” non nutre simpatia nei confronti degli Ebrei,
e come osservato valuta giusto, rispetto a un metro religioso cristiano, farli
oggetto di violenza repressiva. Però questa non era la prospettiva di Roma, la
quale reprimeva l’insubordinazione di chiunque in quanto puro atto di ostilità
a prescindere dalle motivazioni. Queste in Dante vengono ingigantite, e il
rifiuto del dominio romano viene orwellianamente confuso col rifiuto del Messia
cristiano. Si tratta di due discorsi diversi, i cui piani nel Cristianesimo
vengono, in seguito a convenienza sovrapposti. Ma questa che ne viene fuori è
propaganda antisemita, come quella dantesca, e non frutto di una corretta
metodologia storiografica. Vediamo quindi la guisa in cui nel cosiddetto Sommo
Poeta gli scheletri vengano fuori dell’armadio. Tornano, sempre nel
“Purgatorio”, in mostra topoi antisemiti patristici presenti nell’omiletica di
Giovanni Crisostomo, quelli dei Giudei inclini alla golosità e al bere3:
«li Ebrei ch’al ber si mostrar molli, / per che no i volle Gedeon compagni».
Siamo nella sesta cornice dei golosi quando si rammenta ciò: il che non sembra
casuale, ma seguente una linea di antisemitismo attraversante la “Commedia”.
Infatti Dante, trovandosi in tale cornice, ha detto in precedenza: «Ecco / la
gente che perdé Ierusalemme, / quando Maria nel figlio diè di becco!». I Giudei
peccatori irrecuperabili nella seconda cantica sopravvivono formalmente, dacché
destinati a non superare la Giudecca infernale (la possibilità ebraica di
salvezza eterna appartiene a credenti in Cristo venturo e venuto). Qui nel
“Purgatorio” il poeta fiorentino usa una perifrasi per indicarli, gli sconfitti della Prima guerra giudaica,
e per indicare di riflesso la categoria dei golosi. La conclusione di tale
terzina evoca una donna ebrea la quale si nutrì con la carne del figlio durante
detto conflitto. I golosi della sesta cornice appaiono figure gravemente
anoressiche, segnale del patologico apprezzamento del digiuno da parte di quel
lungo Cristianesimo di prima originale maniera. Io non credo che l’autore della
“Divina Commedia” si serva della perifrasi testé indicata al fine di accostare
le immagini dei penitenti e quelle dei Giudei affamati e assediati dai Romani.
Reputo all’opposto che l’intenzione di significato sia negativa in direzione
antisemita, e che quella perifrasi voglia introdurre un discorso del genere:
ecco la categoria dei golosi, peccatori della stessa specie degli Ebrei, avvezzi
alla gola e al bere; i quali pur di soddisfare i propri impulsi corporali sono
in grado di cibarsi della carne di un essere umano, come nel caso di questa
Maria col figlio. Una donna che si mangia il figlio è più exemplum di golosità
che figura di donna denutrita. La mia impressione è che Dante voglia dire: gli
Ebrei mangiano i bambini. Una cosa di questo tipo sarà poi attribuita tra le
maldicenze ai comunisti moderni. “La Civiltà Cattolica” (vedasi il numero 1736 –
21 ottobre 1922) spiegherà che il comunismo
sovietico è impastato di e da Giudei. Sospetto che quest’altra calunnia di
cannibalismo possa avere un’origine diversa dall’Holodomor, considerato che
dove ci sono genti ebraiche i piccoli rischiano di finire quale pietanza.
Secondo me la lettura patristica, con Giovanni Crisostomo, della terzina
dantesca adesso in esame, è la più pertinente. Io penso che la via di lettura
dolcificante porti fuori strada, giacché se c’è nella “Commedia” un passo con
ombra di antigiudaismo il quale si può appieno esplicitare in tal senso, l’evidenza
raggiunta fuga i dubbi in virtù della contestualizzazione. Nel suo famoso poema
lo scrittore fiorentino non fa sfoggio di eccessiva delicatezza. Proprio
nell’ultimo cerchio dell’inferno strappa i capelli a Bocca degli Abati con
sadica aggressività; ancor prima ci aveva informati che il diavolo Barbariccia
«avea del cul fatto trombetta»; e nel “Purgatorio” ci parla, in un perimetro
misogino patristico, di una donna balbuziente (la «femmina balba»)
aggredita da Virgilio e di una vagina maleolente: «L’altra prendea, e dinanzi
l’apria / fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre; quel mi svegliò col puzzo
che n’uscia». Che al cosiddetto Sommo Poeta non si possa attribuire quanto poco
fa ho valutato omogeneo alla sua possibile intenzione, non mi sembra
accettabile. Dante non si mostra affatto lontano da forme di comunicazione
radicale. Due terzine del “Paradiso” mettono in vetrina gli orwelliani
ragionamenti del Cristianesimo: «Però d’un atto uscir cose diverse: / ch’a Dio
e a’ Giudei piacque una morte; / per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse. /
Non ti dee oramai parer più forte, / quando si dice che giusta vendetta /
poscia vengiata fu da giusta corte». La Passione del Messia viene vista in una
duplice contraddittoria ottica. Da un lato è concepita quale necessario
passaggio di redenzione dell’umanità, dall’altro viene inquadrata in modo tale
da colpevolizzare i deicidi Ebrei con intenso astio. Al punto di affermare la
liceità di una punizione a carico degli attori Giudei. Qual è qui la logica
legittimante l’accanimento contro genti ritenute strumento il quale consentì la
letteraria Passione cristiana? Tutto si avvolge nella più orwelliana delle
contraddizioni, nel doublethink. I Romani non possono essere accusati di
deicidio, per necessità teologico-politiche; rimangono sulla scena solo le
genti ebraiche, su cui, per esigenza dinamica e narrativa, scaricare il compito
di promuovere l’uccisione di Gesù. Ciò è indispensabile al disegno redentivo.
Come si fa a prendersela con qualcuno giocoforza rimasto incastrato nelle
costruzioni della teologia del Cristianesimo? Soltanto una nevrosi
irrazionalistica può partorire simile doublethink, rilevato in queste due
terzine della terza cantica. Pensare che chi ha ricevuto quel ruolo evangelico
di causa prossima della morte di Gesù, in una guisa cristiana ineluttabile, sia
nella realtà poi imputabile di un atto (letterario), come se fosse stato libero
di scegliere la sua parte nella vicenda, rappresenta un procedimento mentale
degno di “1984”. Eppure Dante si impelaga nel doublethink, elevandolo a spiegazione
teologica, nella quale si nota ancora una volta che usare la violenza sul
popolo giudaico, spinti da motivazioni di risentimento religioso, appare
qualcosa di ammissibile e praticabile. La categoria dei perfidi Iudaei scaturisce da contorte esigenze teologiche e
narrative, obbligatorie nei confronti dei cristiani, i cui insani frutti
tuttavia vengono addossati agli Ebrei, attraverso la conversione di quelle
necessità di edificazione in nevrotiche (per i cristiani) colpe estreme
compiute da persone dipinte libere, però intrappolate senza scampo nel recinto
concettuale della nuova religio del Cristianesimo. Ai Giudei non si può in
alcun modo, con obiettività e razionalità, attribuire nessun deicidio. La
finzione letteraria evangelica ha animato uno dei più tragici fenomeni della
Civiltà occidentale, quell’antisemitismo il quale già prima della Shoah e della
sua versione pseudobiologica assunse i connotati di crimine contro l’umanità a
causa di estensione e intensione.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio
intitolato “Studi illuministi”
1 Parricidio dantesco (2021), cui rinvio per ogni approfondimento di
altri temi qua evocati.
2 Oscurantismo e irrazionalismo del Cristianesimo in Tertulliano
(2023), da pag. 21.
3 Vedasi nel mio studio intitolato
Le radici cristiane dell’antisemitismo
presente nella mia monografia Studi
illuministi (2024).