di DANILO CARUSO
Nei miei precedenti scritti dedicati ad
analizzare la storia e l’ideologia del Cristianesimo, più volte, e in maniera
frammentaria, ho parlato di un connotato tanatolatrico. Voglio rimediare a
quella dispersione di trattazione che ha inquadrato l’argomento sotto i profili
psicanalitico e filosofico, laddove l’occasione me ne ha dato l’opportunità. Ho
perciò evocato una forma masochistica e un’imitazione di modi operandi dello
stoicismo. Di entrambi ho indicato l’apice nella vocazione cristiana al
martirio, la quale ho accostato al “suicidio stoico”. Dalla sopportazione della
sofferenza in Giobbe all’estremo sacrificio del kamikaze Sansone si nota una
parentela ideale semitica tra il Portico e significativi modelli ebraici. Però,
a mio avviso il carattere di tanatolatria, estraneo al pensiero stoico, è
peculiare nel Cristianesimo per via di estremizzazione patologica: esso prende
il suicidio praticato da alcuni seguaci di Zenone di Cizio (città cipriota dell’antica
area orientale semitica) e lo eleva al concetto di “martirio”. Questa è l’idea
che ho evidenziato in passato. Adesso voglio prendere in esame un testo di
Ambrogio (339 ca - 397) vescovo di Milano nel quale l’autore ha proposto un
manifesto teologico della tanatolatria cristiana: “De bono mortis”. Le cose che
io ho indicato al riguardo basandomi su psicanalisi e filosofia possiedono
altresì un’esplicita evidenza nell’ambito della teologia. È giunto il momento di
sincronizzare i tre piani (psicanalitico, filosofico, teologico) e di rilevare
nelle concrete parole di un Padre della Chiesa la tanatolatria da me in
precedenza altrimenti segnalata. Se gli epicurei avevano disintegrato la
tanatofobia, il Cristianesimo ha ingigantito un discutibile fascino della morte:
il sacrificio, nella sua poliedricità, costituisce un elemento centrale della
tradizione giudaicocristiana (vedansi le vicende di Isacco, della figlia di
Iefte, di Gesù Cristo). Dall’offrire in olocausto oggettivo si è passati a
un’offerta soggettiva (inversione). Nella nuova religione è avvenuto un simile
rimbalzo dei piani, sicché il sacrificante è venuto a coincidere con il
sacrificato. E ciò proviene dal disprezzo del Cristianesimo verso il corpo
umano (teatro libidico), e dalla sproporzionata e isolata esaltazione di una
dimensione spirituale (anima) la quale ha perso tutti i suoi contatti con una
realtà che non è possibile annichilire e demonizzare come niente fosse. Dal suo
punto di vista Ambrogio ci dice che la morte «vitae miseriis ac peccatis
liberet». Sulla “paziente attesa” resta qualche perplessità, visto il modo in
cui la morte viene esaltata: tant’è che i martiri provengono da tale scia di
compiaciuto accoglimento, e alcuni santi hanno provocato la loro prematura
scomparsa proprio a causa di un regime comportamentale che non badava alla
salute personale. Ambrogio nel suo testo, dove cita parecchi brani biblici,
menziona il nevralgico Rm 6,4: il battesimo rappresenta un atto-di-morte,
l’ingresso nella dimensione-di-θάνατος-del-Cristo, da cui si resuscita, si
fuoriesce a nuova vita. Il concetto teologico cristiano del morire è già
presente nel sacramento battesimale. Mentre il Giardino insegnava a non
preoccuparsi della morte, Ambrogio insegna ad amarla. Il discorso del vescovo
di Milano è molto ambiguo. Se bisogna vivere cristianamente da un lato,
dall’altro «mori [est] lucrum»: non fuggire nella qualità di «servus» dal
«vitae obsequium», però nella veste di «sapiens» abbracciare (amplecti) il
«lucrum mortis». «Dissolvi enim, et cum Christo esse multo melius: permanere
autem in carne magis necessarium propter vos [...]. Aliud melius, aliud
necessarium. Necessarium propter fructum operis, melius propter gratiam et
copulam Christi». Questo brano pone in risalto l’idea di «fructum operis»,
secondo me l’azione di propaganda e di proselitismo. Quindi credo dica: morire
rappresenta l’ideale cristiano, tuttavia non è bene sacrificarsi senza aver
lasciato il segno (per estensione o intensione); si può causare la fine della
propria vita “cristianamente” a condizione che dopo di essa resti un exemplum
apologetico, diversamente va attesa la morte naturale vivendo nella mediocrità
(il che costituirebbe una sorta di punizione ritardando la “copula Christi”).
In tutti i suoi ragionamenti Ambrogio non ricorda a caso il versetto di un
Salmo: «Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum ejus». Il teologo esaminato
prospetta la “morte personale” come “sacrificio personale”, dove la vittima
(hostia) risulta l’offerente, affinché in detto sui generis olocausto ci sia un
passaggio a “miglior vita” grazie alla separazione dal corpo: afferma «gloriosius
esse pro Christo mori, quam regnare in hoc saeculo. Quid enim praestantius quam
fieri Christi hostiam?». In simile anelito di morte non ravvedo equilibrio
mentale. Per Ambrogio l’obiettivo rimane il liberarsi del corpo umano,
rinunziare «voluptatibus suis atque luxuriae», fuggire «flammas libidinum». E
nel caso in cui questo non perisca letteralmente si deve far sì che «moriantur
omnes corporis delectationes». Il precetto cristiano è il seguente: «Mortem Jesu
in corpore nostro circumferamus. Qui enim habuerit in se mortem Jesu, is et
vitam Domini Jesu in corpore suo habebit. Operetur igitur mors in nobis, ut
operetur et vita». E questa è tanatolatria. Nel suo opporre «lex carnis legi
mentis» il vescovo di Milano non fa null’altro che ripresentare quella rottura
dell’asse delle capacità razionali junghiane, la quale ho più volte spiegato
essere alla base della nevrosi cristiana, giacché al “maschile junghiano
razionale (lex mentis)” è stato contrapposto “il femminile junghiano
sentimentale (lex carnis)”: in tal modo, in siffatta illecita e patologica
operazione, il genere sessuale dell’uomo ha assorbito e raffigurato la
razionalità, mentre il genere femminile ha configurato lo “schieramento
somatico” connotato da tutta la gamma emozionale con ricaduta sul corpo umano.
E dato che il corpo umano (teatro libidico) è da sopprimere appunto per
eliminare l’influenza di emozioni, passioni, stimoli esteriori estetici, il
soggetto femminile in quanto rappresentante della mera dimensione somatica
(priva del dominio razionale) è diventato la porta dell’Inferno, che può sviare
l’uomo dalla retta razionale via lastricata di puro Logos (ex stoico, ora
cristiano). La salvezza dell’anima comporta la morte del corpo (e delle sue
pulsioni libidiche) in maniera reale o attraverso pratica di astinenza dalla
concupiscenza. In questo stoicismo impazzito «inimicum [...] est corpus»:
«Posti in questa vita è da cercarsi codesta morte, affinché la morte di Cristo
brilli nel nostro corpo [...]. Imita quindi la morte chi allontana sé dalla
comunione di questa carne, e si scioglie da quei vincoli». Più evidente di così
il regime tanatolatrico cristiano reputo non possa essere: LA VITA È MORTE, con
doublethink orwelliano non estraneo alla teologia del Cristianesimo. Ambrogio
rammenta nella sua esposizione Rm 7,24: «Chi mi libererà dal corpo di questa
morte [Τίς με ῥύσεται ἐκ τοῦ σώματος τοῦ θανάτου τούτου;]». Il monito del
vescovo di Milano al fedele è chiarissimo: «Quod delectatione carnali eligendum
aestimaverit, hoc sciat falsum, ab eo fugiat et recedat, quia fraudis est
plenum». Il σῶμα comporta θάνατος in senso lato normale con valenza etica
(«mors peccati»), mentre questo concetto di morire nell’orizzonte cristiano
assume un valore positivo allorché libera l’anima dal corpo («mors mystica» la
definisce Ambrogio sempre mantenendo un senso lato, nel quale ho fatto notare
può rientrare pure una vocazione al martirio): «Mors utique est bonum, quae
animam a societate carnis hujus absolvit et liberat». La morte, ovviamente,
nella teologia cristiana si porta appresso il discorso sui novissimi. Detto ciò,
su cui non mi soffermerò, riprendo l’analisi mirante a evidenziare l’aspetto
tanatolatrico del Cristianesimo, e lo faccio riportando un’altra citazione dal
“De bono mortis”: «Mors est quae mundum redemit». No si dà riscatto dal peccato
se non mediante un passaggio di mors: battesimo, martirio, rogo. Ambrogio non
ci dice niente di questi ultimi due. Ma i martiri già c’erano prima di lui; e
alla sua epoca, nel 390, l’imperatore romano Teodosio, adeguandosi altresì
all’omofobia cristiana e riprendendo una norma simile del 342 (che prevedeva il
rogo) dei filocristiani Costanzo II e Costante I, stabilì di nuovo la pena di
morte quale sanzione possibile a carico di prostituti omosessuali passivi. Nel
IV sec., dopo l’Editto di Costantino e l’espandersi del Cristianesimo, la
percezione generale ai vertici del potere dell’omosessualità era mutata in
direzione dell’intolleranza. Il Codex Theodosianus del 438 previde la punizione
del rogo per l’omosessualità passiva in genere. A partire da Giustiniano, con
le Institutiones del 533, non si farà più distinzione. Più avanti, nei secoli,
l’orrenda necessità cristiana di purificare il mondo e di distruggere i corpi
umani nei casi giudicati peggiori giungerà a coinvolgere streghe, eretici e
altri. Nel testo esaminato del vescovo di Milano è lui stesso, ricordandoci Rm
1,32, a suggerire la punizione estrema per trasgressori e loro ammiratori: «Non
solum ii qui flagitiosa agunt, sed etiam qui ea approbant, digni morte sunt».
La tortura e il rogo nel Cristianesimo, secondo me, possiedono una radice
sadica, la quale rappresenta il rovescio della medaglia col masochismo su un
lato: sadismo/masochismo nella tanatolatria, gravi fenomeni psicopatologici
promossi da una discutibile originaria teologia. Il progresso della Civiltà
umana dopo l’Illuminismo ha posto un argine al perpetuarsi di crimini contro l’umanità
(omofobia, misoginia, antisemitismo, illiberalità, stabiliti da princípi
cristiani, e praticati con metodi violenti e disumani, per lungo tempo, su
vaste aree, e su una percentuale della popolazione non indifferente). Ambrogio
insiste sul bisogno cristiano di disprezzare il corpo umano, luogo del peccato,
e «usum mortis imitantes» di far sì che l’anima si renda indipendente da esso,
in modo di poter exsurgere de isto
sepulcro. Di fronte a tali considerazioni non c’è da stupirsi di
fenomenologie di disagio indotto come quella delle cosiddette “sante
anoressiche”1. Nel “De bono mortis” il vescovo di Milano prende di
mira corporei ardores, oculi meretricii, meretrices: «mulier [...] virorum pretiosa anima capit». La carnis pulchritudo costituisce ragione
di male, la animae pulchritudo rappresenta invece
l’opportunità di bene: una dicotomia troppo radicale, inaccettabile nella sua
matrice patologica delineata, stando alla mia ottica di pensiero razionalista.
Nonostante il Cristianesimo avesse respinto il pensiero di Epicuro, una sezione
dello scritto apologetico analizzato riporta una critica alquanto epicurea
della paura della morte, sottolineando che inquietante risulta essere la opinio de morte, non tanto la mors in sé. Comunque subito dopo si
approda su un versante alternativo cristiano: «Mors [...] absolutio est et
separatio animae et corporis: non est autem mala solutio; quia dissolvi et esse
cum Christo multo melius [..]. Non igitur mala mors. Denique mors peccatorum
pessima». Torna ancora una volta un proclama tanatolatrico misobiotico (tipico
dei martiri: «Benedictio perituri veniat in me», scrive dal canto suo il
vescovo di Milano). Ambrogio spiega inoltre l’immortalità dell’anima con un
ragionamento platonico. La Patristica ha attaccato la vecchia filosofia
proseguendo nel solco paolino, tuttavia non ha potuto fare a meno di costruire la
nuova religio con i mattoni concettuali presi proprio dai rivali filosofici
stoici, platonici ed epicurei. L’evidenza di una simile operazione testimonia
il carattere umano e storico del credo cristiano, elaborato dentro un quadro con
i suoi fattori socioculturali, i quali ne hanno determinato il profilo. Questo
è analizzabile, e conoscibile nel suo DNA, sulla base suddetta, ossia di comune
fenomeno concettuale, non avente nulla di divino. La Storia va inquadrata con
metodi scientifici. Le religioni sono fenomeni storici, sociali, umani. Le loro
teologie non costituiscono spiegazioni, bensì un’aggiunta spesso dogmatica.
Queste cose devono essere “oggetto” di altre “scienze”, non hanno una qualità
intrinseca che le possa elevare al rango di “soggetto guida” di analisi e
conoscenza. Le studiamo per capirle, non le capiamo per poter studiare meglio
il resto, giacché stanno sullo stesso piano da indagare.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio
intitolato “Studi illuministi”
1 Per un
approfondimento di questa materia vedasi la prima parte di un altro mio lavoro: Misantropia del Cristianesimo, nella
mia opera Studi illuministi (2024).