La
satira VI di Giovenale e la “Lisistrata” di Aristofane rappresentano due
significative opere utili alla comprensione storica riguardante il fenomeno
della vittoria del Cristianesimo all’interno della società dell’Impero romano.
Il testo giovenaliano citato contiene in nuce tutto un repertorio che sarà
specifico dalla Patristica in poi della cultura cristiana. L’autore romano si
mostra qui in primis misogino: allo sposarsi preferisce il celibato, o al
limite la pedofilia (scegliere un “pusio”: «fanciulletto», dal dizionario della
lingua latina Bianchi Lelli; dal dizionario della lingua italiana Gabrielli,
«persona che è nell’età dai 7 ai 12 anni circa, prima di diventare ragazzo»).
Gli scandali nella Chiesa legati alla patologia della pedofilia sono comparsi
in tempi recenti: ignoriamo se e in quale misura tale fenomenologia potesse
avere diffusione in tempi più remoti. Agli occhi di Giovenale le femmine sono
in larga parte ninfomani: farebbero a meno di un occhio che di un uomo. Egli
circoscrive l’essenza della donna nella sua parte anatomica sessuale, di cui è
perennemente schiava sotto una infinita pulsione di soddisfacimento. Un
soddisfacimento il quale offrirebbe una intensità edonistica superiore rispetto
al maschio. Tale slancio libidico porterebbe a compiere una consequenziale
serie di gesti criminosi volti alla realizzazione delle mire maturate. Lo
scrittore latino critica anche il dettaglio della bellezza muliebre, la quale
sarebbe un equivoco a suo avviso nell’atto di giudicare: quello che si vede non
sarebbe corrispondente al valore spirituale femminile (si pensi a sant’Oddone
di Cluny per cui la donna è un sacco di merda). La femmina è una creatura
malevola che esige continui apprezzamenti del partner e alla cui sensuale voce
i membri maschili si inturgidiscono (pensiamo un po’ a quanto accade nella
“Lisistrata”). Prendere una “uxor” costituisce quanto di peggio possa accadere
a un “bonus”. Notiamo sino a questo punto le già notevoli analogie coi
pregiudizi antifemministi cristiani (ad esempio: mulier tota in utero),
tuttavia è il caso di fare un’osservazione semantica. Giovenale, nel suo
disprezzo, continua a riferirsi al soggetto femminile umano come “uxor”, usando
un sostantivo preciso; il Cristianesimo, il quale ha elevato l’odio anche a
livello terminologico, userà l’aggettivo (sostantivato) “femina”, vale a dire
un termine identificativo nell’ambito dell’intero e indistinto genere animale.
Nella sua sesta satira questo autore continua puntualizzando che una madre di
pessimi costumi (pessimi a suo dire, poi bisogna valutare obiettivamente cosa
rappresenta crimine e cosa costituisce emancipazione femminile) crescerà un’eventuale
figlia a modello di lei. Le donne non devono intromettersi in attività dove sia
richiesta “vis”, specifica del genere maschile. Giovenale teorizza
esplicitamente l’“incontinenza” («libido») quale causa di ciò che lui intravede
come decadenza nei costumi romani. Rimpiange l’austerità del passato (età
storica ideale) e mette in cima alle devianze la «luxuria». Pare di leggere un
padre della Chiesa. La sua veemenza di castigatore moralistico lo oppone alla
stregua di un profeta veterotestamentario che grida contro la meretrice
Babilonia (questa a suo tempo socialmente progredita e meno maschilista), e
agogna il ritorno di uno stato se non edenico quanto più vicino a uno schema
ritenuto più ideale e più consono. L’era post-augustea romana fu attraversata
da dinamiche sociali dentro lo spazio imperiale che andavano in direzione di
una globalizzazione sotto tutti i profili (da quello etnico a quello
spirituale). Tale progressione verso l’amalgama non fu né serena né felice. In
un mondo e in un momento dove l’abilità personale determinava il successo, una
realtà che potremmo paragonare nella forma a quel quadro sociale moderno weberiano
capitalistico protestante, i “non eletto” alla ricchezza e gli esclusi dalle
gratificazioni edonistiche nutrivano risentimento sociale. Giovenale uno di
questi. Questo ceto medio soprattutto ma non solo italico, sarà quello che
determinerà la vittoria del Cristianesimo, estorcendo la nuova idea
filosofico-religiosa allo spazio di riflessione alessandrino1.
Giovenale testimonia che la “reazione” cristiana si propone come un moto
socioculturale mirante alla rivincita nei confronti dei progressisti
greco-orientali. La nuova religione cristiana costituì la cornice, il
contenitore in cui riversare il complesso ideologico morale giovenaliano (il
che non vuol dire che lo inventò lui, ne fu interprete). Il ceto medio,
socialmente secondario, di fronte all’intraprendenza avrà la sua
“controriforma”. Non per niente il Cristianesimo è la religione di deboli e
sconfitti, costruì e costruisce il suo successo sopra il malessere sociale, sul
disagio di una categoria di mediocri i quali mal vedono l’emersione di altri
(di cui denunciano i presunti o reali lati negativi). Giovenale odia
l’emancipazione femminile, ne fa un capro espiatorio. Anticipa l’immaginario
medievale delle streghe con riunioni notturne femminili (sembra quasi stia
parlando di sabba). Addirittura, oltre, parla di una zoofilia femminile, la
quale è antenata della misoginia cristiana laddove si parla del rapporto
sessuale col Diavolo: «imposito clunem summittat asello»; l’asinello poi si
evolverà nell’immaginario in Satana zoomorfo. In parole povere questo scrittore
latino è protopatristico, la sua satira VI manifesto ante litteram di
antifemminismo cristiano nell’etichetta a venire, ma altresì due altre satire
(la II e la IX) vanno segnalate per via dell’omofobia (un argomento appena
sfiorato nella VI). L’autore, nel testo esaminato sino a ora, non manca neanche
di specifiche antiebraiche (i Giudei sono visti bramosi di denaro e assassini
di infanti in riti di divinazione: manca solo il deicidio). La satira di cui
sto trattando presenta la donna alla maniera di una Eva o di una Pandora,
rovina l’uomo dilapidando le sue ricchezze, prende anticoncezionali e pratica inoltre
aborti. Questi ultimi temi sono sempre stati cari alla teologia cattolica.
Difendono il concepimento e la vita del nascituro a prescindere, però sino al 2018
nel proprio Catechismo la Chiesa ammetteva la liceità della pena di morte (si
veda la vecchia sezione 2267) e a Città del Vaticano fu abolita all’epoca di
Paolo VI. Mi chiedo dove sia stata la presunta dottrina dell’amore universale
in 17 secoli, per non dire lo stesso a riguardo della misoginia. Giovenale si
rammenta che le donne fanno uso di filtri magici (o droghe?) Al fine di
manipolare la mente dai compagni. E che sono pure autrici di crimini di due
tipi: quelli per alterazione in condizione mentale rabbiosa, più comprensibili
di quelli compiuti a mente calma. Tutte le idee misogine, omofobiche,
antisemite di questo scrittore della letteratura latina, assieme alla nostalgia
di un passato tradito, le ritroviamo nella Patristica adeguatamente riprese e
sviluppate nel nuovo orizzonte cristiano. Naturalmente, come già detto,
Giovenale rappresenta un simbolo letterario di quella mentalità rancorosa
davanti al progredire della società romana. L’Impero dopo Costantino e Teodosio
volgerà la sua rotta verso il peggiore maschilismo fondato su misoginia e
omofobia. Gli “intraprendenti”, gli abili ad arricchirsi alla maniera
capitalistica avranno la loro rivincita con Lutero. E non costituisce un caso
che l’emancipazione femminile sia emersa con più evidenza nella sua vocazione
in Paesi protestanti che non in quelli cattolici od ortodossi. Questi sono
stati chiusi al cambiamento. Il Protestantesimo si è associato più facilmente
al liberalismo. Per quanto concerne il Cristianesimo originario in aggiunta
alla sesta satira giovenaliana si rivela molto interessante volgere lo sguardo
sulla “Lisistrata” aristofanea, di certo non contemporanea alla nascita della
religione di Cristo al pari di Giovenale, tuttavia rivelatrice di una serie di
analogie illuminanti a proposito della ricerca degli elementi culturali
confluiti nella nuova fede cristiana. Va innanzitutto chiarito che il
sostanziale pretesto di creazione di Aristofane è in questo caso di matrice
puramente politica. Però al di là dello spirito del tempo possiamo cogliere nel
testo aristofanesco uno spirito del profondo che animava la misoginia greca a
partire da Esiodo2. Indubbiamente l’antifemminismo cristiano, sorto
dalla fusione di quello romano-giovenaliano in primis con quello ebraico (di
per sé non sessuofobico), si mise a braccetto con quello greco e i suoi autori
espliciti: in testa il filosofo Aristotele a prestare le basi
pseudoscientifiche3. Senza il Cristianesimo accanto a Platone nella
“Scuola di Atene” di Raffaello molto probabilmente ci sarebbe stato un altro
studioso. Comunque ritornando ad Aristofane possiamo osservare una formale
somiglianza ideologica con Giovenale: pure il commediografo greco vive in un
periodo di crisi e di cambiamento della sua società ateniese proiettata verso
una fallimentare espansione imperialistica. All’interno della Roma imperiale
giovenaliana e dell’Atene democratica aristofanea il destino arride ai più
audaci e ai più ricchi. Ai socialmente perdenti rimane piangersi addosso o
abbaiare. Mettendo da parte la più remota vicenda storica ateniese non saliente
a proposito del mio discorso, prenderò invece in esame del testo di Aristofane
gli aspetti sociologici che interessano, quelli che hanno attraversato i secoli
da Esiodo al lui e da lui all’era cristiana, quelli riguardanti la misoginia
greca. L’antifemminismo di Aristotele è andato a supportare in modo concettuale
dalla Patristica giungendo sino alla Scolastica. La misoginia aristotelica
simboleggia quella peggiore canonica greca: non tutto il pensiero della Grecità
antica però fu antifemminista, qualcuno si salva, e questo qualcuno in quelle
parti è stato scartato dal Cristianesimo4. L’antifemminismo teatrale
aristofanesco è della medesima sostanza di quella filosofico aristotelico.
Nella “Lisistrata” si notano altri futuri “punti programmatici” del nevrotico
pensiero misogino cristiano.Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Percorsi critici”
https://www.academia.edu/44476394/Percorsi_critici

