di DANILO CARUSO
Io sono YHWH e non
sono uno in aggiunta.
Isaia 45,18
I miei studi sulla tradizione giudaicocristiana e quelli sulle distopie mi hanno condotto lungo un percorso concettuale, a ritroso nel
tempo, che partendo da Hegel (e dal suo panlogismo) ha portato a quest’analisi
spinoziana, dove i due suddetti motivi si incontrano. Ho scritto un saggio sul
romanzo di Zamjatin intitolato “Noi”, in cui l’autore manifesta una posizione
antipanlogistica. In quel mio testo ho esaminato i dettagli hegeliani con
accuratezza, e pertanto rinvio là il lettore desideroso di cogliere un più
approfondito prospetto sullo sviluppo dell’idealismo di Spinoza in quello
romantico di Hegel1. Per quanto concerne invece i miei studi
storico-letterari su Ebraismo e Cristianesimo, in relazione a questo scritto,
indicherò in nota la strada dell’approfondimento in direzione di una migliore
comprensione. Qui parlerò soprattutto di Baruch Spinoza, seguendo le due linee
ispiratrici testé indicate, e volgendomi alla fine lungo l’asse stoico a
recuperare contenuti eraclitei ricomparsi in Hegel. A mano a mano che esporrò
le mie argomentazioni tutta l’analisi sarà più chiara nelle sue tappe e nella
sua omogeneità di struttura. Cominciamo con l’esame del sistema filosofico
spinoziano. Il pensiero di Baruch Spinoza è in bilico tra l’essere considerato
una filosofia (e quindi una scienza laica che guarda alla religione) o una
teologia (ossia, nel di lui caso, una costruzione di matrice religiosa
edificata con mattoni razionalizzanti). Indubbiamente le due strade hanno
trovato nell’elaborazione mentale spinoziana più volte delle tangenze, ma
adottarne una nella veste di linea interpretativa del filosofo ebreo in maniera
esclusiva mi pare possibile. Occorre dunque capire quale delle due sia stata la
causa remota dell’edificio filosofico-teologico di Spinoza. La mia impressione
è che predominante sia stata la mentalità religiosa acquisita nella prima fase
quando ricevette un’educazione intellettuale nel suo ambiente originario.
Perciò, secondo me, tutto partirebbe in primis da un ripensamento concettuale
dell’Ebraismo. Il fatto che Spinoza sia accostato allo stoicismo ne è la
riprova. In precedenza ho segnalato le analogie semitiche fra Giudaismo e
pensiero stoico2, niente di strano dunque che la mentalità
ebraico-semitica del pensatore giudaico lo abbia portato a riscoprire la sponda
dello stoicismo fondato da Zenone di Cizio. La riflessione spinoziana ha
ripercorso topoi in comune tra Ebraismo e visione stoica del mondo. Quindi ad
esempio lo spirito del “Qoelet” veterotestamentario, con il suo più o meno
amareggiato distacco dai beni materiali e mondani, che è d’altro verso
l’atteggiamento tipico del saggio stoico, viene a riemergere in Spinoza in una
guisa unificata, la quale dei due lati filosofico e religioso fa un tutt’uno
nel modo appena spiegato. Io credo che l’autore giudeo sia partito da una base
nevrotica. Più avanti, nel corso della mia esposizione, ne illustrerò i
dettagli. Adesso comincerò l’esame sistemico filosofico. Spinoza mostra
nell’ambito scientifico una posizione progressista: ha fiducia nelle scienze e
giudica che queste possano migliorare la vita dell’uomo, e che quindi vadano
coltivate e applicate. Se pensiamo all’oscurantismo scientifico cristiano che
ha zavorrato l’Occidente per circa quindici secoli, cogliamo un aspetto di
modernità la quale possiede nell’auspicio spinoziano un quid di attivistico (ho
trattato nei miei scritti della rilevanza dell’attivismo nella storia occidentale
quale fattore promuovente comportamenti caratteristici, di società e di
personalità, sin dall’antichità, volti all’espansione e all’affermazione di sé3).
Vediamo con precisione di esaminare sezioni peculiari del pensiero di Baruch
Spinoza. Perché egli mette in cima a tutto Dio? E che cos’è il suo Dio? Ritengo
che il teologo collochi al posto numero uno Dio per una questione religiosa, in
seguito alla sua formazione di base personale. Gli è stato insegnato che in
cima a tutto sta un Dio, ha assimilato quest’impostazione, dominante anche nel
pensiero teologico cristiano, e da essa è partito in maniera spontanea come la
più naturale delle cose. Il Dio spinoziano però non si ripresenta nella foggia
tradizionale giudaica, non è una persona separata dal resto della realtà. Da
cosa il filosofo ebreo sia stato influenzato e indirizzato nella creazione del
suo monismo panteistico ho l’impressione di rintracciarlo nel prologo del
Vangelo non sinottico (brano che ho studiato con attenzione4).
Secondo me, Spinoza rileva quelle dinamiche e quelle categorie di Dio e Verbo,
Theós e Logos, e da lì si riallaccia per un verso alla sponda semitica
neoebraica e neostoica dell’epoca giovannea, la cui fusione di queste due
momenti nella nuova prospettiva cristiana ha consentito poi al pensatore giudeo
di toccare quest’altra sponda in virtù delle di essa radici. È il Dio cristiano
a essere pervasivo, sulla falsa riga del Logos stoico, nei confronti della
realtà materiale. Dio è in cielo, in terra, in ogni luogo. La riflessione
spinoziana accomuna schietto stoicismo e idee cristiane sulla base di una loro
comune radice, e marcia in una direzione di superamento razionalistico (in
apparenza, almeno nella sua architettura dichiarata) della dicotomia
Giudaismo/Cristianesimo. Spinoza, in parole povere, ci ha lasciato una nuova
religione, secondo lui, elaborata in guisa scientifica. Per tal motivo sarebbe
vera e inconfutabile. La verità è invece che il sistema filosofico-teologico
spinoziano si mostra nevrotico. Il suo filosofo creatore pone a monte
dell’attività divina il concetto di necessità. Poco sopra ricordavo
l’importanza dell’attivismo nella mentalità semitica. Neanche il Dio di Spinoza
ne rimane esente, a tal punto che il suo agire, quale evidenza delle sue
primazia e affermazione ontologiche, viene presentato come obbligatorio,
sebbene non subordinato ad altro. Il Dio spinoziano al fine di essere il non
plus ultra, necessita di agire, di affermarsi sulla materia e di inglobarla: tutto
è in Dio, come nel Cristianesimo, poiché Dio è ovunque e abbraccia tutto; Dio
sta sopra e la materia sta sotto come nell’ordinamento ontologico
immanentistico stoico; Dio è il principio determinante e il resto rappresenta
il determinato come insegna la genesi biblica5. L’autore ebreo
unisce varie specifiche visioni in una sintesi non tanto originale rispetto a
idee pregresse. È apprezzabile la prospettiva di pacificazione religiosa
occidentale che propone. Spinoza vorrebbe andar oltre il confronto
Giudaismo/Cristianesimo. Il quale è stato funesto per gli Ebrei come lui. Il
pensiero spinoziano influì in modo determinante su Hegel nella misura in cui
nel filosofo giudeo sono rilevabili forme di idealismo romantico ante litteram.
Spinoza prende in considerazione tutta la realtà nella veste di una singola
totalità, e di simile rilevazione filosofica fa un caposaldo del suo sistema.
Il Deus sive Natura che ne viene fuori è già qualcosa di hegeliano. Il
meccanismo di dispiegamento interiore, della somma unità ontologica, l’unica
sostanza (la quale possa dirsi spinozianamente tale), segue un meccanismo di
necessità che procede dalla primordiale necessità che occorre a Dio, cioè
quella di essere “attivo”, di agire, allo scopo di dare il segno del suo
imporsi su tutto. Nel far questo Dio non può ammettere altro da sé, uno scarto
ontologico di fronte a cui possa compararsi; la sua eccellenza ontologica
comporta l’esclusività. Pertanto rimane l’unica sostanza, e fagocita la
totalità del reale imponendogli una dinamica che deve confarsi a lui, e perciò
dalla necessità del suo agire, una nietzschiana “volontà di potenza”
obbligatoria al suo statuto ontologico, scaturisce la analoga necessità del
dispiegarsi delle fasi del reale. Niente può andare diversamente da come la
tutela dell’integrità sostanziale divina ha programmato, vale a dire che il
Deus sive Natura segue una mappa logica in maniera estremamente scrupolosa,
“matematica”, nello sviluppare la “razionalità del reale” funzionale al suo
essere. Hegel è già in Spinoza, è il pensatore ebreo a teorizzare il panlogismo
e il pensatore idealista tedesco a riprenderlo in virtù di fattori che lo
avvicinavano a Spinoza. Costui è radicale nella sua teologia, non vuole creare
il moderno idealismo tedesco, a lui interesse esaltare Dio al massimo grado. La
conseguenza che ne vien fuori è che il Dio spinoziano ingloba tutto il reale,
non lasciando altro da sé, cosicché in maniera involontaria questa elaborazione
religiosa si trasforma nella costruzione di un modello idealistico tedesco.
Hegel la riprenderà volentieri per due motivi:
1) l’aspetto religioso della filosofia-teologia di Spinoza
col suo cardine attivistico-semitico si riallaccia all’attivismo della
mentalità luterana hegeliana (a breve chiarirò meglio questo dettaglio);
2) l’aspetto filosofico del sistema spinoziano, come detto,
configurantesi nella guisa di un idealismo di stampo formale fichtiano, dà
l’opportunità di non uscire fuori del seminato idealistico romantico (e Hegel
porrà un accento spinoziano, logico, all’idealismo tedesco: il sistema
hegeliano risulta una “matematica” dell’Assoluto).
Quando i luterani criticheranno Hegel rinfacciandogli il
fatto di essere filosofico-idealistico, non capiranno il fatto che costui ha
sposato la radicalità monistica teologica del precursore giudeo. I filosofi,
invece, comprenderanno il legame avito di Hegel col Luteranesimo. Perciò se Dio
non crea l’universo con un libero atto amorevole, non c’è da stupirsi né in
Hegel né in Spinoza: la perfezione dell’attivismo divino obbliga Dio a produrre
(dal momento tetico-logico dell’in-sé a quello antitetico-negativo del
fuori-di-sé, della Natura, dei modi “negativi” spinoziani) secondo “necessità”
immanentistica. Il Deus sive Natura del filosofo ebreo rappresenta già
l’Assoluto hegeliano (con le precisazioni sopra accennate). La predestinazione
luterana è formalmente analoga al “fatalismo” stoico, e noi ritroviamo il
fatalismo degli stoici estremizzato in Spinoza. Nel momento in cui l’autore giudeo
dice che lo schema logico delle idee nella Sostanza e il suo dispiegarsi
rappresentano la stessa cosa sul piano fenomenico del divenire mondano si pone
quale anello di congiunzione fra Hegel e lo stoicismo (il quale concepiva la
realtà sulla base della immanentistica dicotomia attivo/passivo). Spinoza
guarda al mondo stoico per via delle affinità semitiche di ispirazione ebraica
e inoltre per via delle suggestioni cristiane (giacché, come visto, il
Cristianesimo si è rifatto allo stoicismo quando c’è stata la saldatura con il
Giudaismo). Esiste quindi un asse che da Eraclito (l’ispiratore di Zenone di
Cizio, fondatore dello stoicismo) passando dal pensiero degli stoici giunge
sino al Giudeo Spinoza e poi culmina in Hegel e nel suo idealismo assoluto. La
triade hegeliana Idea-Natura-Spirito ricalca topoi spinoziani. Al primo posto
c’è Dio, che in quanto sive Natura esce fuori-di-sé nell’attributo spinoziano
della res extensa, e dunque ritorna in-sé, mantenendo così l’unità sostanziale
salda senza dar luogo a emanazioni ipostatiche separate, nella dimensione
dell’altro attributo noto, quello della res cogitans. Hegel non è poi così
innovativo nei grandi termini del suo sistema, molto più apprezzabile e
originale nei dettagli. Spinoza dal canto suo riscopre lo stoicismo, per i
motivi chiariti, e visto che il suo Dio alla fine va ad assumere fortissime
connotazioni appartenenti al logos stoico ripropone il vecchio ideale del
“vivere secondo Ragione”. Come visto il Dio spinoziano costituisce una Ratio
universale, pertanto è sommamente saggio vivere in modo razionale, abbandonando
ciò che non sia lucida scelta non condizionata dalle passioni. Nonostante nel
discorso su come neutralizzare le passioni il filosofo ebreo sembri precorrere
l’idea freudiana legata alle “rimozioni” nell’inconscio della psiche, tutto
sommato egli rimane legato a una prospettiva comportamentale semitica la quale
subordina l’agire individuale umano a un primato ontologico superiore (Dio,
Logos). Perciò laddove Spinoza appare moderno, non va dimenticato il suo
background e il peso di esso in termini interpretativi. Cosicché, allorché
ripropone l’“amor fati”, giacché tutto ciò che è reale è razional-divino, e
dunque da giudicare positivamente, da accettare senza girarci attorno, egli non
sta altro riproponendo che il modello di Giobbe, exemplum giudaico di saggio
stoico nell’accettazione del corso degli eventi. Bisogna rassegnarsi alla
volontà divina: è un’idea tipica della tradizione giudaicocristiana arrivata a
Hegel con tutte le sue discutibili contraddizioni. Spinoza dal canto suo ad
esempio chiariva che nel momento in cui comprendiamo uno stato di tristezza
personale nel quadro dell’universale piano divino lo trasformiamo da passione
(incompresa) in qualcosa motivo di allegria in virtù di simile illuminazione
conoscitiva. Un’idea che lascia perplessi, e a me fa pensare al nevrotico
Kierkegaard il quale spiegava che per stare bene bisogna stare male6.
Vedere un quid di positivo nelle condizioni negative costituisce un pensiero
contorto. È vero che, come recita il proverbio, non tutto il male viene per
nuocere, ma anche qui “ragionevolmente” c’è un limite. L’essere umano nel
sistema filosofico-teologico spinoziano non è libero. L’unico incondizionato è
Dio, il quale tuttavia opera secondo necessità, come spinto da nevrosi
ossessiva compulsiva, non sopprimendo peraltro gli aspetti di male nella
realtà, i quali rimarranno anche un problema nella costruzione hegeliana.
Questo Assoluto perché contempla le
guerre e non le sopprime visto che c’è solo esso a stabilire la realtà? Il male
dunque è “necessario” al divenire? Un problema non di poco che pone capo a
pesanti considerazioni. specialmente quando Spinoza afferma che Dio ama se
stesso. La sua spiegazione riporta suggestioni stoico-trinitarie, poiché dal
primo grado rappresentato dalla Sostanza divina si transita al secondo del
Logos progettante il reale immanente (la Natura, il fuori-di-sé hegeliano) per
culminare al terzo grado dell’Amore: in parole povere questa è la dinamica
trinitaria cattolica (Padre, Figlio e Spirito Santo) portata nel monismo
panteistico spinoziano agli estremi dell’immanentismo ontologico. L’itinerarium
mentis in Deum presentato da Spinoza ricomparirà in Hegel, dove pure l’unica
libertà è quella del realizzarsi dell’Assoluto e nell’Assoluto. Tutto il resto
non conta. L’Io empirico e la collettività costituiscono epifenomeni, “media”
della totalità soggettiva (la quale il pensatore giudeo ha definito
“Sostanza”). Spinoza parla di un “intelletto infinito”, un “modo” (ossia un
accidente della Sostanza) infinito, intermedio tra l’“attributo” (qualità della
Sostanza) della res cogitans e la singola mente umana (anima). Questa sarebbe,
durante la vita corporea, puntualizzazione di una Mente universale eterna. La
mente umana (anima) poggia il suo esistere, unito col corpo, sopra
un’idea-essenza della res cogitans divina (pensiero pensante). Per Spinoza la
mente umana è un momento ontologico (transeunte) dell’intelletto infinito di
Dio (pensiero pensato nella sua totalità). L’anima di un singolo essere umano
in virtù di ciò conosce specularmente la dimensione della res extensa giacché,
come ricordato sopra, ordo idearum e ordo rerum sono due facce di una stessa
medaglia divina. E vedere tutto in Dio costituisce il sommo, pacificatore delle
passioni, ideale esistenziale del filosofo ebreo. Questo è il suo “amor Dei
intellectualis” panacea di ogni male. Terminata questa mia prima tappa
analitica dedicata ai capisaldi del sistema teologico spinoziano debbo dunque
passare a quell’esame più puntuale di cui sopra ho anticipato contenuti: gli
elementi di nevrosi nella mente di Baruch Spinoza. Si tratta di aspetti del suo
pensare che non possono essere sottovalutati. Già abbiamo notato la maniera in
cui il Dio-Sostanza spinoziano sia il prodotto di un’impostazione ricevuta in
maniera kafkiana dall’autore ebreo, compresso nel credo religioso del suo
ambiente formativo giovanile. Da simile cappa non si è liberato, e ne ha
portato le evidenti tracce nella formulazione della sua nevrotica filosofia, la
quale però sarebbe più giusto definire una teologia giudaicocristiana di stampo
dogmatico. La vocazione matematica spinoziana costituisce in lui una forma
nevrotica, il tentativo di dare una facciata quanto più convincente alla sua
religiosità, e quindi un tentativo in apparenza vestito di razionalismo. Che
Spinoza sia pseudorazionalista lo dimostrano vari contenuti delle sue posizioni
sociopolitiche, in aggiunta alla sua nevrotica matrice teologica. Nessuno può
ammantare misoginia, omofobia e xenofobia di razionalismo. Il Dio
veterotestamentario, quello più specificamente ebraico, è misogino, omofobo e
xenofobo7. E Spinoza ne ripropone i temi. Il filosofo giudeo usa nei
suoi testi i termini “mulier” e “foemina” quali sinonimi, caricando entrambi
dell’accezione spregiativa patristica posseduta dal secondo. Perlopiù adopera
questo. In un piccolo paragrafo dell’“Etica” addirittura compare tredici volte.
Nella mentalità spinoziana il concetto di “foemina” si contrappone a quello di
“vir” (il cui significato si riversa nel sinonimo parimenti usato “homo”: in
ossequio al suo sistema Spinoza non distingue molto il lato fisiologico da
quello intellettivo, perché rappresenterebbero la medesima cosa vista da
“attributi” diversi). La gerarchia umana stabilita da Dio risulta: viri,
mulieres, pueri. Una donna per il pensatore ebreo sarebbe sotto il profilo intellettuale
una via di mezzo tra un bambino e un uomo adulto. Dentro tale misoginia di
ispirazione giudaicocristiana si rintracciano le prove di assenza di una
sincera, autentica e vera vocazione razionalistica, poiché non si possono
affermare assurdità che già Platone aveva dimostrato false. La partecipazione
alla Ragione non ammette differenze di genere, tuttavia Spinoza permanendo nel
reazionario solco antifemminista riecheggia bestialità, le quali lo qualificano
come un uomo non soltanto chiuso in pregiudizi irrazionali (e non dunque aperto
a un corretto uso della Ragione), ma anche (a dispetto di un sedicente status
di pensatore razionalistico) affetto da nevrosi. Uno che pensa nella veste di
filosofo non dovrebbe andare a impantanarsi in simili cose, anzi dovrebbe
superarle. E lui non lo ha fatto: ha costruito un Dio onnivoro (alla maniera di
Saturno) ponendolo addirittura nella qualità di garante di un simile
ordinamento misogino, omofobico e xenofobico. Come detto, Spinoza disprezza le
donne. Sono quelle che piangono. Ci sono poi le «mulierculae». Le spiegazioni
spinoziane dei deficit femminili sono chiare e sconcertanti. Egli giustifica il
fatto di una “foemina” che nell’Antico Testamento profetizzò perché la donna
possiede una naturale carenza intellettuale, e dunque sarebbe più propensa
all’immaginazione, la caratteristica connotante i profeti a dispetto della
visione razionale. Il re Giosia si rivolse a una donna in luogo dell’indisposto
profeta Geremia «quae ex ingenio muliebri magis apra erat». Cioè «in forza di
[ex]» un difetto costitutivo Spinoza sta qualificando una capacità femminile, e
non in seguito a una prerogativa che potrebbe essere denotata attraverso una
forma positiva. Il filosofo ebreo è tanto sconcertante quanto sorprendente. Nel
ribadire una sola forma lecita di congresso carnale, quella eterosessuale
matrimoniale volta alla procreazione di figli (come i precetti
giudaicocristiani esigono), egli, a sua insaputa, ha scoperto la “libido”
freudiana e l’ha sotterrata sotto il suo pseudorazionalismo al posto di
inquadrarla sul serio in un contesto di vera analisi razionale. Ha sovrapposto
su tutto il suo campo d’esame le proprie credenze dogmatiche religiose,
spacciandole per espressioni di una Ragione universale. A proposito del
dettaglio appena evocato ricaviamo che Spinoza, oltre a non avere una matura
lucidità psicanalitica, in quanto bloccato da nevrosi religiose, è altresì
omofobo. Riguardo a Freud e misoginia, l’autore giudeo, nel suo antifemminismo
radicale, cita un passaggio dello storico Curzio Rufo, il quale, nel rifiuto e
disprezzo della possibilità che le donne possano partecipare al governo della
res publica, prospetta il paragone foemina/castratus. In aggiunta alla
rievocazione di una bestialità in funzione di diminutio, Spinoza ha qui
vagamente intuito la freudiana teorizzazione del complesso femminile di
castrazione. Il filosofo ebreo non nutre alcun riguardo verso le donne, le
quali vuole decisamente fuori della politica amministrativa. Per lui il potere
politico si declina solo al maschile. Il modello sociale spinoziano non è
affatto improntato a uno spirito liberale completo. Accanto al lasciare le
«mulieres […] in potestate virorum», ammette la schiavitù (servi in potestate
dominorum), e l’esclusione dalla vita politica comune dei rei di «turpe vitae
genus» (vale a dire, per esplicitare un esempio, degli omosessuali). La donna è
agli occhi di Spinoza inferiore all’uomo per Natura riguardo a fortitudo animi
e ingenium, ed egli rifiuta con fermezza una possibiltà di parità di genere.
Ritiene inconcepibile donne intellettuali, mentre le declassa a soggetti di
mera generica rilevanza sessuale8. Spinoza la spara veramente grossa
quando afferma che la partecipazione della donna alla vita politica della comunità
possa costituire un magnus pacis detrimentum. Questi elementi antifemministi
del pensiero spinoziano costituiscono punti imprescindibili di estrema gravità,
tra l’altro. A Oudewater, cittadina olandese sotto il dominio cattolico
spagnolo (Spinoza visse nell’Olanda indipendentista e liberale del suo tempo),
all’era dell’autore ebreo, si praticava la pesatura delle donne allo scopo di
stabilire, in caso di “leggerezza”, l’appartenenza alla categoria delle
streghe. E lui prende posizione contro il gentil sesso in luogo di avanzare
proposte sostanzialmente liberali. La libertà di cui parla Spinoza non
rappresenta un concetto genuino e limpido, bensì una libertà orwelliana: quella
dell’animal farm, dove tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono alla fine
più uguali di altri. Egli non indossa i panni di un illuminato equo
liberalismo, rivendica solo lo spazio, toltogli da un antisemitismo in generale
sempre deprecabile, per poter attuare un suo modello totalitario, una
androcrazia omofobica, addirittura informata da razionalità divina (a suo modo
di vedere). Spinoza eredita tutti i limiti della visione sociopolitica e
antropologica veterotestamentaria (rinnovati con vigore dal Cristianesimo) e
non se ne rende conto, prigioniero nel suo kafkiano recinto mentale. Egli pone
sullo stesso piano di valutazione la misericordia muliebre, la parzialità e la
superstizione. Giudica che le donne siano più fonte di penosa gelosia a
pensarle fedifraghe, che non di normale benessere, a causa di loro inconstantia
et fallax animus. Lui fu vicino al matrimonio e venne lasciato da lei – oserei
dire, fortunatamente – a vantaggio di un altro più facoltoso. Non so quanto
c’entri la motivazione economica in tale abbandono di questa, comunque,
avveduta precorritrice di Regine Olsen, tuttavia per Spinoza la donna è ancora
la porta dell’inferno che introduce alla perdizione della retta via. Se
pensiamo che il filosofo ebreo accoglie la validità normativa in termini morali
della Scrittura ci rendiamo conto con chiarezza in quale circolo di idee si sia
andato a impelagare senza scampo9. Egli reputa i Giudei un popolo
eletto da Dio ma non in maniera esclusiva. Nutre una concezione weiliana in
ciò. La patologia nevrotica spinoziana proviene dalla sua personalità, non
dagli insegnamenti religiosi che ha ricevuto, poiché poteva essere più
equilibrato facendo uso di quella ragione che lui ha invece distorto e piegato
verso i suoi interessi speculativi di stampo appunto nevrotico-religioso.
Spinoza crede che sia l’odio antisemita a tenere in vita il popolo ebraico, che
la circoncisione sia lo strumento atto a contrassegnarlo in questa lotta per la
sopravvivenza, la quale a suo avviso potrebbe terminare con la costituzione di
uno Stato giudaico moderno se Dio vorrà di nuovo accordare agli Ebrei una nuova
forma di predilezione. Spinoza adotta la Bibbia cristiana e accetta la validità
neotestamentaria. Gesù Cristo sarebbe per lui un interprete razionale, il quale
ha visto nella Sostanza-Dio le verità divine nitidamente, a differenza di
limitati predecessori veterotestamentari. Il pensatore giudeo distingue
chiaramente filosofia e teologia, e pensa di poterci parlare dal primo campo in
virtù di un presunto esercizio di razionalità, ma in verità ci parla sempre da
teologo nevrotico. A suo modo di vedere, Scrittura e filosofia, fides et ratio
non sono in contrasto. L’inclinazione freudiana di Spinoza si trova di nuovo
nel punto in cui chiarisce la nascita del diritto positivo dalla limitazione
del diritto naturale inteso quale lecita possibilità assoluta di agire al fine
di assecondare la propria personale natura, qualsiasi essa sia (Es) e cioè
priva di una posteriore inquadratura razionalistica (principio di realtà): è
preferibile, allo scopo di tutelare la propria integrità, approdare a una
condotta ragionevole la quale mantenga la coesione sociale in luogo di una
generale originaria anarchia hobbesiana. Spinoza chiama potere democratico
(democrazia) il potere assoluto di uno Stato Leviatano hobbesiano. Simile forma
di sovranità statale spinoziana è incondizionata, subordina tutti i componenti
sottostanti al centro rappresentativo di essa. Il filosofo ebreo postula uno
Stato etico dal momento che esso ha rilevato dal basso il requisito della
razionalità delegata in modo universale (in parole povere qui c’è già Hegel). E
tale Stato, stando all’avviso spinoziano, va sempre comunque seguito, pure se
sbaglia. L’auspicio dell’autore giudeo è ovviamente quello che il potere
sovrano possa evitare, in previsione della propria conservazione, gli errori.
Egli parla di una comunità di uguali deleganti, tuttavia, a ben guardare, la
sua non rappresenta una vera e propria democrazia di uguali dacché ha escluso,
sulla base di assurdi pregiudizi, tutto il genere femminile della popolazione e
gli indegni per, a volte discutibilissimi, motivi morali. Il pensiero politico
di Spinoza ci prospetta una forma di borghese apartheid misogina, omofoba e
xenofoba. La distopica liberaldemocrazia spinoziana si mantiene peraltro in
linea con la veterotestamentaria ebraica xenofobia10. Spinoza, il
quale possiede una contorta idea di pacifismo (per lui vale il “si vis pacem
para bellum”), ci spiega (irrazionalmente) che, se una città nemica occupata
non offre la sicurezza di una stabile e tranquilla gestione degli sconfitti, è
meglio raderla al suolo e deportare la popolazione. Il pensatore ebreo ha
teorizzato un modello di democrazia borghese (anticipante uno schema preso di
mira da Marcuse ne “L’uomo a una dimensione”), dove stabilità e quiete sociali
(di huxleyana memoria11) costituiscono dei cardini, e dove il distacco
dello Stato da problematiche teologiche divisive viene più apprezzato di un
intervento dirimente. Secondo Spinoza, al fine di creare una società coesa, non
è bene lasciare la proprietà immobiliare nelle mani della molteplicità dei
cives, poiché il frazionamento proprietario sarebbe movente di divisione.
Preferibile demandare a un ente pubblico la proprietà di case e terre, il quale
provvederà ad affittarle. Il ricavato andrà speso in parte nel settore della
difesa militare, in parte destinato al soggetto detentore della sovranità
statale. Spinoza lascia alla singolarità del civis a più ampia libertà nel
campo delle attività finanziarie, bancarie e commerciali, la cui fluidità e la
cui diffusione reputa causa di corresponsabilizzazione. Dai prestiti bancari o
personali a interesse bisogna, a suo avviso, escludere gli stranieri. Questo gli
ha ispirato il suo nativo mondo olandese (essendo nato ad Amsterdam nel 1632),
il quale gli ha garantito un migliore spazio di vita. Spinoza osserva che un
essere umano non può essere giudicato in tribunale sulla base delle idee
religiose bensì sulla base di quel che fa. Allorché c’è «Charitatis et
Aequitatis exercitio» da parte del singolo non ci sono problemi di sorta in
ambito religioso, come anche in generale. Il filosofo giudeo, però, nel suo
argomentare in merito produce altresì un significativo esempio legato al suo
modello sociopolitico, ed elogia la società liberal-borghese nel momento in cui
si mostra incurante degli aspetti religiosi, ma attenta in banca ad esempio a
guardare solo il grado di ricchezza della gente e la affidabilità comportamentale.
L’autore ebreo, in vita, fu vittima di emarginazione da parte dei suoi
originari correligionari, uno dei quali cerco persino di ammazzarlo. Spinoza,
il quale non poteva disprezzare giustamente un ideale di pacifica e libera
coesistenza sociale, non seppe elevarsi a posizioni di superamento della
misoginia, della omofobia e dello schiavismo insiti nella tradizione
giudaicocristiana. Alla fine egli rimane un pensatore di impostazione
religiosa, alla ricerca di una libertà i cui benefici non ripartisce con
“carità ed equità”. Rimane parziale. Mi chiedo se lui possa considerare
eversive le pari opportunità di genere in politica e nella società, e
l’accettazione degli omosessuali, giacché la sua presunta razionalità divina si
manifesta misogina e omofobica. In mezzo a queste perplessità, la libertà che
Spinoza teorizza, con pertinenti forme argomentative, in abstracto pregevoli e
raffinate, sembra in fondo apparire soltanto la propria. Esiste dunque un velo
di ipocrisia nella sua esaltazione (riservata non a tutti) della libertà di
pensiero e di opinione? Egli è in grado di dire che le credenze astrologiche
dei magi evangelici fossero non scientifiche (ma prodotto di una fantasia ad
hoc indicativa), però i suoi limiti di vedute non li sa affatto notare,
intrappolato nel nevrotico recinto teologico biblico. Se visse appartato, ciò
non potrebbe essere stato in seguito a un calcolo di convenienza
autoconservativa? Spinoza visse in quelle epoche in cui i cristiani, come
scrisse, si scontravano ferocemente inter se avendo fatto scadere la religione
al livello di un’estetica di potere. Disprezzava altresì l’antico mondo pagano,
a testimonianza del suo sostrato religioso più che schiettamente filosofico. La
richiesta di libertà spinoziana pare in primis mirare alla soppressione
(lecitamente richiesta e richiedibile, nonché auspicabile) dell’antisemitismo
cristiano. Ora, però, il sistema filosofico di Spinoza si rivela aporetico: se
tutto si svolge secondo un piano divino all’interno dalla Sostanza, che senso
ha andare opporsi contro l’ineluttabile corso del reale? Nell’ottica filosofica
spinoziana l’antigiudaismo non dovrebbe essere un momento storico imprescindibile
e inevitabile? So che si tratta in pratica di domande assurde, però
scaturiscono dalle aporie spinoziane. Dal momento in cui il filosofo giudeo
spiega che pure il peccato originale di Adamo nella prospettiva di Dio era
razional-hegeliano, non era un male, ma che anzi il male in assoluto non esiste
perché lederebbe la perfezione divina; che senso ha lamentarsi per problemi
secondo lui visti dalla prospettiva inferiore, umana, limitata? Contestare
l’antisemitismo non equivale a contestare i progetti di Dio per la storia umana?
Se il male esiste soltanto a causa dell’incapacità di valutare tutto l’insieme
del reale in divenire, perché Spinoza si concentra su cose che reputa dettagli
minori allo sguardo di Dio? Perché non trova quella pace interiore prevista dal
suo sistema nel contemplare il tutto in Dio? Perché nella tragica tristezza
dell’antisemitismo non si rallegra più e si ribella de facto al liberticida Dio
giudaicocristiano (il quale ha preteso invece di esaltare maniera assoluta)? Le
contraddizioni nella testa di Spinoza sono pesantissime, denotano nevrosi
kafkiane e non uso di razionalità genuina. Il pensatore ebreo, come visto, si
rivela in ultimo più un teologo nevrotico e dogmatico, un costruttore di uno
pseudofilosofico sistema di pensiero, messo in crisi dal creatore stesso,
artefice di aporie radicali e insuperabili, le quali dimostrano l’orizzonte
nevrotico spinoziano e un finto richiamo alla razionalità autentica. Spinoza ha
ricevuto una formazione educativa giovanile connessa al mondo ebraico, e questa
impronta ha indirizzato la sua mentalità in maniera stabile. Quando il filosofo
giudeo puntualizzò le cose seguenti che riporterò in sintesi, non va trascurato
che il suo elogio della libertà discrimina le donne (ritenute dotate di scarsa
razionalità), gli omosessuali (per motivi di morale religiosa biblica) e gli
schiavi. Sebbene qui Spinoza dica cose condivisibili e apprezzabili, dobbiamo
ricordare che sono unicamente riservate a una parte del genere maschile della
società. La presunta razionalità del patto fondativo sociale spinoziano è
maschilista (e ritroveremo la tara maschilista in Hegel). Il Deus sive Natura
si mostra misogino, omofobo e schiavista, nonché legittima la pena capitale. L’autore
ebreo parla di una facultas libere ratiocinandi dell’individuo la quale il
potere politico non può né praticamente, nonostante metodi repressivi, né
lecitamente sopprimere. La verità e la falsità non possono essere stabilite e
imposte per legge. La ragione umana abita in uno spazio interiore, che non
costituisce uno spazio pubblico (al pari dell’intera psiche del singolo).
Perciò questa dimensione privata non può essere campo di censura statale. Finis
Reipublicae revera libertas est, precisa Spinoza. Il modo in cui raggiungere la
devotio erga Deum non è materia di deliberazione pubblica rivolta alla
collettività. Esiste nei confronti della politica un diritto personale di
critica libera, pacifica, intellettualmente onesta. L’ordinamento giuridico
vigente va comunque rispettato. Spinoza non approva spiriti eversivi e rivoluzionari.
Per lui vale il principio: salus reipublicae suprema lex esto. Non va dimenticato
che lo Stato nelle concezioni del filosofo giudeo nasce storicamente in seguito
alla delega comunitaria di porzioni di razionalità individuali, le quali
assommate generano una razionalità super partes e vincolante in quanto tale. La
macrorazionalità statale prevale in ogni caso sulla microrazionalità personale,
a prescindere da chi abbia realmente ragione. Lo Stato, in quanto tale non può
essere oggetto di contestazione senza rompere il patto comunitario di delega
della razionalità. Tuttavia da parte del potere statale «quae prohiberi
nequeunt, necessario concedenda sunt, tametsi inde saepe damnum sequatur». La
facultas libere ratiocinandi non può essere messa a tacere, essendo anche la
base del progresso scientifico. L’impossibilità dello Stato a mettere a tacere
la ragione individuale, nel caso di repressione della libertà di pensiero e del
diritto di critica, comporterebbe una deriva di ipocrisia. I depositari di «bona
educatio, morum integritas, et virtus» resterebbero sempre intolleranti verso un
regime liberticida. Spinoza reputa controproducente per lo Stato fare martiri
fra i liberi pensatori (in ciò si riscopre in linea con un ragionamento
dell’orwelliano O’Brien), meglio lasciare un’aperta dialettica di punti di
vista (la cui pericolosità comunque nei riguardi dello Stato liberal-borghese
si trova limitata da azioni possibili di censura e repressione antieversive e
antirivoluzionarie: bisogna evitare dialettiche violente, neanche gradite allo
huxleyano Brave New World). Da questo confronto pacifico dovrebbe emergere una
maggioranza nel caso della politica la quale, in seguito al patto fondativo della
razionalità condivisa, possiede il diritto di esprimere la norma vincolante
(pur sempre emendabile o abrogabile in futuro). Le chiare, evidenti,
contraddizioni del pensiero sociopolitico di Baruch Spinoza ci rivelano una
personalità molto legata e vincolata al suo tempo e alla sua tradizione
culturale familiare. Più che un difensore della libertà, mi pare l’edificatore
di una distopica (capitalistica) visione del mondo, dove da un lato il suo
onnivoro Dio non lascia nessuna altra libertà che quella di adeguarsi a un
preciso schema teologico misogino, omofobico, schiavistico, e dall’altro
Spinoza cerca di sdoganare un concetto di libertà borghese, laicizzante e
tendente a spegnere i violenti scontri religiosi non molto favorevoli a un
regime di vendite mercantili. L’autore ebreo mi sembra in particolare un
teorico e promotore del primato della finanza speculativa bancaria. Nella sua
nevrosi egli non è un ateo, come gli fu rimproverato. È invece più vicino al
protestantesimo attivistico. Dio predilige Abele, cioè l’attività
imprenditoriale a rischio, e non Caino, curatore della più sicura rendita
immobiliare proveniente dalla terra. Dio predilige la manifattura e lo
strumento del denaro. Il teologo giudeo postula perciò non soltanto un Deus
sive Natura, ma anche un Deus sive Capitalismus. L’attività divina, realizzante
il suo essere in interiore, non si ferma staticamente di fronte alla Natura.
Detto fuori-di-sé, in termini hegeliani, già prodotto attivistico di Dio, viene
ulteriormente sottoposto ad attività, la quale smonta la materia (l’immobile)
in direzione del bene mobile grazie alla manifattura, e procede infine alla
volta dell’astrazione finanziaria (il denaro). L’azione divina sulla Natura
mediante l’uomo costituisce una techne, cioè una conoscenza universale messa in
pratica; e in tal senso si profila un dominio della tecnica sulla Natura
(componente quindi dell’amore del Dio spinoziano per sé). L’attività umana
rappresenta un riflesso dell’attività divina. Dio è il primo tecnocrate (sia in
ordine cronologico che gerarchico). Il Deus sive Capitalismus di Spinoza rappresenta
l’archetipo filosofico del “distinto crociano” dell’economia”. Scremate da
tutto il resto sostanziale, le parole del filosofo ebreo dedicate alla libertà
sono formalmente molto belle e condivisibili, ma se poi mettiamo a fuoco rimaniamo
delusi a scoprire che si tratta di uno specchietto per le allodole, e per
giunta discriminante una grande fetta del genere umano. Se egli avesse distinto
gli esseri umani ponendo come riferimento il possesso effettivo del Logos (QI),
senza farsi trascinare da idee reazionarie, sarei stato d’accordo con lui12:
ha sbagliato a non seguire una via platonica. L’attivismo teologico di Spinoza
va altresì a sfociare in un’esaltazione della libertà la quale possiede un
risvolto economico. Gli Ebrei, per tradizione esilica (conseguenza di
irrazionale condannabile antisemitismo), erano dediti al commercio e alla
finanza (lecite attività in ogni caso). Che egli vada a sposare un ideale
liberal-borghese non è un caso: ciò costituisce de facto un conveniente
matrimonio per affinità di interessi ideologici e anche materiali. La famiglia
di Spinoza era coinvolta in attività imprenditoriali, andate fallite. Egli è
vicino all’idea di predestinazione luterana, la cui radice prossima è
agostiniana, ma quella remota è stoica. Nel pensatore giudeo compare quella
mentalità attivistica del protestantesimo, e ben rilevata da Weber, in Spinoza
presente grazie ai suoi propri canali a latere. È stato proprio costui in un
illuminante e significativo esempio a chiarirci che nella sua liberal-democrazia
(borghese) il denaro posseduto e l’affidabilità a gestirlo costituiscono cose
importanti. Tutto il resto viene declassato, dalla religione alle pari
opportunità di genere, a roba che non deve assurgere a intralcio del sistema
liberal-capitalista. È evidente che pure in Spinoza l’elezione divina si rende
riconoscibile nella forma del “successo attivistico”. Il filosofo ebreo non
esalta la ricerca della ricchezza (effetto), la quale verrebbe dunque da sé
(premio), come nel caso di Giobbe, esalta esclusivamente il momento attivistico
in sé (causa). Ricercare la ricchezza rappresenta una passione nell’accezione
spinoziana, un impulso non lucido, il quale farebbe smarrire l’ideale supremo
di riscoprirsi in Dio e nei suoi progetti. L’attivo impegno (nevrotico) dev’essere
questo: conformarsi al pensiero e alla volontà divine. Il rifiuto di una
prospettiva di diretta ricerca delle ricchezze avanzato da Spinoza non abolisce
il valore di segno di elezione divina nella sua teologia. Tale ragionamento di
rifiuto di intenzione ad agire è comprensibile: l’essere umano nella concezione
spinoziana deve concentrarsi sulle cause e non sugli effetti. Esiste un
parallelo nelle analisi weberiane sull’etica protestante di quest’atteggiamento
di repulsione da parte dell’autore giudeo circa la ricchezza desiderata in
quanto tale (e non attesa invece in premio per l’attivismo). Si tratta del caso
dell’accumulazione capitalistica: Weber nota che i grandi detentori di capitali
tendano a non sprecare il denaro, come se non esistesse nelle loro mani.
Spinoza dice la stessa cosa: agisci, come se il denaro e le ricchezze non
esistessero. Quel che conta è unicamente l’agire (nevrotico compulsivo). Il
filosofo ebreo sarebbe potuto vivere di rendita grazie a un considerevole estraneo
lascito, però preferì fare l’ottico. Sarebbe potuto andare a fare il docente in
seguito a una prestigiosa proposta, ma preferì il lavoro manuale. Pare che il
Dio-Sostanza-Attività spinoziano apprezzi molto il lavoro della manifattura per
realizzarsi. Alla mia esposizione manca in conclusione quella parte dedicata a
Eraclito nella veste di ispiratore del semita Zenone di Cizio, dal cui
stoicismo sorse poi il Cristianesimo. Allo stoicismo si riagganciò l’Ebreo
Spinoza per via delle parentele concettuali semitiche. Ecco quindi quell’asse
che dal pensatore presocratico di Efeso passa dallo stoicismo e dal
Cristianesimo per giungere a Spinoza e infine a Hegel. L’esame della sezione
riservata a Eraclito nell’opera di Diogene Laerzio offre ottimi spunti di
riflessione circa una rilettura spinoziana e hegeliana del filosofo di Efeso.
Alcuni brani del biografo greco costituiscono preziosi spunti in tale direzione.
Per Eraclito il fuoco costituisce l’immagine del principio determinate, sempre
esistito, un principio di forma; dunque, un contenitore, che al suo interno
sviluppa una continua dialettica di alterità nella processione dei suoi
elementi, un insieme il quale nel complesso mira alla stabile permanenza
ontologica della forma-logos (determinante il divenire continuo del suo
contenuto-materia): in parole povere questo rappresenta l’embrione della
Sostanza di Spinoza e dell’Assoluto di Hegel. Nelle parole del biografo greco a
proposito di Eraclito, in aggiunta a intravedere le analogie stoico-semitiche
col monismo spinoziano (a sua volta tra le fondamenta hegeliane), possiamo
ritrovare la teorizzazione del “negativo” quale motore universale. Senza il
“negativo” (“modo” spinoziano, “fuori-di-sé” hegeliano) non c’è divenire:
l’Assoluto ante litteram eracliteo poi si ricompone; e il determinato viene
sussunto nel determinante, la materia-divenire nella forma armonica. Il
contenitore, che Eraclito dal canto suo chiama Logos, esce fuori-di-sé dal
momento tetico (formale), cioè dal suo stretto essere un principio determinante
di forma. Ecco così recuperati, dopo il chiarimento del “negativo”, i termini
canonici della dialettica hegeliana. A Eraclito non sfugge neanche il problema
del “cattivo infinito” giacché afferma che l’universo sia limitato
(un’affermazione a questo punto da intendersi più riferita al suo interno e
alle sue interiori dinamiche di opposizione: il cosmo si limita in primis in
interiore). E infine il filosofo di Efeso supera pure la problematica di
hegeliana di una sola chiusa crescita dialettica storica parlando di macrocicli
rigenerativi. Tale idea di Eraclito sarà ripresa dallo stoicismo, il quale in
generale attraverso Spinoza, sarà di spunto a Hegel: il Logos egemonico e le
ragioni seminali sono idee stoiche di derivazione eraclitea.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Distopie
occidentali”
1 “L’antipanlogismo di Zamiatin” (2015).
2 Si veda in particolare il mio studio Gesù stoico e dionisiaco contenuto nella mia pubblicazione Partita a scacchi (2022).
3 Per approfondimenti indico miei lavori: 1) dentro la mia
opera Note di critica (2017) la sezione intitolata Radici
sumere di Ebraismo e capitalismo; 2) la monografia Critica dell’irrazionalismo occidentale (2016).
4 Si veda lo studio segnalato nella nota 2.
5 Suggerisco un approfondimento grazie a questo mio scritto: Radici
egizie, contenuto nella mia
monografia Ermeneutica religiosa weiliana (2013).
6 Ho dedicato una analisi al teologo danese: L’irrazionalismo
nevrotico di Kierkegaard,
nel mio saggio Filosofie sadiche (2021).
7 Al fine di approfondire consiglio due miei scritti: 1) Antropogonia
e androginia nel Simposio e nella Genesi, dentro la mia opera Considerazioni
letterarie (2014); 2) Aristotele e il pericoloso regno di Dio, dentro il mio saggio Teologia analitica
(2020).
8 Per approfondire indico un mio studio: Sul biblico
“Cantico dei cantici” e su Gn 1,1, all’interno della mia pubblicazione
Radici occidentali (2021).
9 Si veda il punto 2) di nota 7.
10 Vedasi nella nota 7 il punto 2).
11 A “Brave New World” di Aldous Huxley
ho dedicato una monografia: Il capitalismo
impazzito di Aldous Huxley.
12 Allo scopo di possibile
approfondimento indico un mio scritto in merito: Le implicazioni filosofico-politiche del mio schema psicanalitico,
contenuto nel mio saggio Storia e
pensiero (2023).