Nella giurisprudenza italiana in virtù della legge 248 del 18 agosto 2000 anche i testi pubblicati su internet godono della tutela del diritto d’autore già stabilito dalla precedente legge 633 del 22 aprile 1941. La loro riproduzione integrale o parziale è pertanto libera in presenza di scopi culturali e al di là di contesti di lucro, da questo lecito uso fuori del consenso dello scrittore si devono necessariamente poter evincere i seguenti dati: il link del testo, il titolo, l’autore e la data di pubblicazione; il link della homepage del suo contenitore web. Copiare non rispettando queste elementari norme rappresenta un illecito.

lunedì 27 gennaio 2025

IL “DE PROVIDENTIA” DI SENECA E IL CRISTIANESIMO

di DANILO CARUSO

Il “De providentia” di Lucio Anneo Seneca1 (4 a.C. – 65 d.C.) è una monografia scritta l’anno precedente la morte dell’autore, rappresenta ormai un’opera del periodo di caduta in disgrazia finale del filosofo stoico presso il suo ex allievo Nerone. Sebbene sia facile immaginare che risenta degli umori personali di quel clima, d’altro canto non possiamo omettere un carattere standard per una simile redazione la quale riflette a prescindere contenuti strutturali di impronta riconducibile allo stoicismo romano. La filosofia della Stoà, più in generale, compare nella trattazione del saggio senechiano in forma inequivocabile, sicché, semmai, l’atmosfera vissuta da Seneca fu di sprone a mettere per iscritto pensieri già nella sostanza avita stoici. E quanto appena detto si rivela veritiero nel momento in cui si notano nel testo in esame le analogie con l’ottica cristiano-patristica. Non è il maestro di Nerone a mostrare simpatie verso la nuova religione. I fatti hanno voluto che due filoni di pensiero semitico (uno filosofico iniziato con Zenone di Cizio e l’altro più schiettamente religioso legato al Giudaismo) s’incontrassero in maniera fertile (ma secondo me negativa, alla luce di quello che sarà il Cristianesimo per parecchi secoli2) proprio attorno all’epoca di Seneca. La comunanza di matrice semitica delle due suddette emanazioni, mediante l’esperienza dell’Ebraismo alessandrino3, fece sì che queste venissero fuse alla volta di una nuova teologia, con l’obiettivo di costruire una religione-per-tutti (cattolica). Non dobbiamo pensare che Seneca avesse delle propensioni in tal senso. Io credo che lui sia rimasto uno stoico integro, e che spunti di questa etica siano confluiti nella Patristica con altri mattoni filosofico-teologici. I Padri della Chiesa erano grecoromani in un sistema educativo ancora classico-pagano e non cristiano-medievale. Non poco dal pensiero antico è transitato nella nuova religio4. E tra ciò possiamo rilevare l’impianto concettuale del “De providentia”, trattato stoico, ma che pare scritto con la testa di un novello teorico del Cristianesimo. Ho constatato come, al di là delle righe personali stoiche e romane, tale opera sia, per così dire, ante litteram, patristica. Ovviamente non dobbiamo vederla al modo weiliano di prefigurazioni, bensì nella guisa poco sopra chiarita. Analizzando il “De providentia” rileveremo elementi di etica stoica riversatisi nella religione di Cristo con un nuovo abito, però al di sotto del quale puntualizzata una provenienza filosofica. Nell’Ebraismo paralleli atteggiamenti in generale esistevano dietro altra forma. La radice semitica consentì di legarli alla luce di nuova teologica spiegazione, impastata di filosofia perlopiù stoica e tradizione religiosa soprattutto giudaica. Il Cristianesimo è rimasto un culto solare neoatonista5 (con radici altresì egizie dunque). Comunque, vediamo meglio i perni concettuali del “De providentia” sulla via analitica prefigurata. Il problema centrale di questo scritto senecano si mostra uno di quelli nevralgici nella teologia cristiana, vale a dire la tematica del male nel mondo, soprattutto a danno di persone incolpevoli, nel momento in cui l’universo viene considerato il prodotto di una divinità rappresentante altresì un principio di giustizia e di equità. Tale è il porsi del filosofo stoico all’inizio della sua riflessione, la quale, al pari della visione cristiana, riconosce una “providentia” divina universale. Seneca rifiuta un’origine casuale del cosmo, sostenuta d’altro canto dall’atomismo democriteo. Pertanto il tema del perché avvenimenti negativi colpiscano chi non se li merita in un’ottica di premiazioni/punizioni da parte della divinità rende l’argomento del “De providentia” di non facile, snella, lineare soluzione. Se stoici e cristiani giudicano esistente una regia provvidenziale all’interno del contesto del reale, v’era d’altro lato un versante di pensiero epicureo e aristotelico propenso a giudicare la divinità (per vari motivi) disinteressata delle sorti umane e della contingenza6. Lo sforzo di Seneca nel cercare di dare una risposta alla sua problematica stoica, ereditata poi dal Cristianesimo, si abbandona ad argomentazioni non molto razionali. Queste ritorneranno tali e quali nella nuova religio. La divinità, a dire del filosofo stoico, metterebbe-alla-prova e corroborerebbe i migliori attraverso esperienze traumatiche, dolorose, tragiche. Mi chiedo, personalmente, se simile agire non sia da considerarsi più sadico che appropriato e giusto. Resta dunque a Seneca un iter impegnativo nel suo impegno a convincere il lettore circa la bontà della “providentia”. La difficoltà di aggrapparsi a una prima risposta paradossale, emozionale e fideistica lo induce a teorizzare nella funzione di miglior approccio al male, laddove possibile, una reazione attivistica. Cioè: quanto non va bene dovrebbe essere corretto dall’agire umano mosso da quello sprone. Un tale primato dell’attivismo non sarà vivo nell’etica cattolica, lo ritroveremo nel Cristianesimo protestante (poi ben esaminato da Weber). Seneca delinea un modello analogo al tipo delle Giobbe veterotestamentario (amor fati). A questo momento passivo dell’esperienza del male rimarrà legato il Cattolicesimo. Il Protestantesimo si ricollegherà al momento attivo della visione stoico-senecana: non basta e non si deve stare a guardare nell’accettazione del corso provvidenziale, si può verificare la possibilità di una vita migliore. Il saggio stoico deve cercare il segno della sua predilezione divina «laboris appetens iusti», sopportare al pari di Giobbe le avversità estranee, inammissibili in quanto tali rispetto alla sua forma mentis, la quale lo vuole invece coraggioso, temerario di fronte alla situazione di pericolo. Compare qui il principio regolatore che produrrà la figura del martire cristiano, è il principio di una mentalità semitica: sacrificarsi, se richiesto e necessario, per la causa ideale. Da ciò Sansone, la pazienza di Giobbe e dello stoico, i suicidi politici fra i Romani tradizionalisti. Di questi ultimi Seneca elogia lo harakiri di Catone, il quale non ritroveremo per caso in un ruolo di primo piano nel purgatorio dantesco7. La vocazione al martirio accomuna lo stoicismo romano e il Cristianesimo delle origini. Seneca nel “De providentia” affronta il tema panlogistico collegato alla divinità (tutto ciò che è reale è stato predeterminato da questa) e alla di essa “providentia”, postulando che l’interesse e il benessere dell’insieme globale e generale prevalgono su segmenti parziali. Un altro modo per dire che bisogna rassegnarsi alla “volontà-divina”. Argomenti del genere hanno avuto vita lunga, e sempre per mezzo di un solco di pensiero semitico incarnatosi in diversi posti. Agostino d’Ippona col suo rifiuto del pelagianesimo che conduce sino alla predestinazione luterana e protestante, l’Ebraismo idealistico di Spinoza che porta fino a Hegel8. Oggigiorno anche la gente semplice esprime delle volte non molto entusiastiche rassegnazioni alla volontà-di-Dio. In parole povere il “De providentia” di Seneca ha attraversato i secoli e le società cristianizzate in virtù di quei suoi contenuti, i quali lo hanno reso un manifesto ideologicamente indifferenziato sulla Provvidenza divina e sull’argomento del male nel mondo, un manifesto ricalcato nelle sue linee, nelle sue idee, nei suoi spunti dai pensatori cristiani. A onor del vero debbo però sottolineare che la teologia del Cristianesimo ha estremizzato la posizione stoico-senecana. Seneca fa notare gli effetti collaterali di un regime di incontrollato benessere, laddove incosciente nei di esso eccessi. Egli pone dei richiami, condivisibili, di carattere esistenzialistico, i quali possono offrire delle analogie di forma con equivalenti trattazioni della Patristica. Qui, però, gli inviti senechiani inneggianti all’equilibrio, alla reazione attivistica in guisa intelligente, vengono stravolti da un preciso indirizzo religioso (nevrotico) il quale sposta l’azione mirando all’affermazione di un’ideologia fideistica discutibile dove la maggiore lucidità mentale (stoica) cede il passo alla nevrosi. L’antiedonismo etico di Seneca resta in bilico nel “De providentia”, pronto a cadere sul lato sbagliato (cristiano). V’è un inquietante passaggio che sarà ripreso e riproposto dai Cristiani in direzione della patologia anoressica nel contesto del disprezzo della corporeità: «Lenior ieunio mors est». L’ideale del digiuno cristiano, così come proposto da alcuni, è stato fra le cose peggiori della nuova religio (ieunium=salus9), L’obiettivo di ricercate forme di denutrizione (conducenti all’anoressia) finalizzate a mortificare il “corpo”, luogo del peccato, ha causato vittime. Si pensi, ad esempio, alle “sante anoressiche”. Lo spirito di fondo dello stoicismo senecano è diverso, e mantiene un margine di “ragionevolezza” proposto in previsione di affrontare e contrastare le avversità: «Patiamur: non est saevitia; certamen est». Il Cristianesimo cattolico ha invece messo al primo posto una sorta di masochistico compiacimento della “saevitia”, mettendo da parte il “certamen”. L’orizzonte di quest’ultimo, tipicamente semitico-veterotestamentario (pensiamo alla caparbietà di un Giacobbe) verrà riscoperto dal protestantesimo, il quale con le sue vocazioni volontaristiche e attivistiche cercherà di dare un senso meno tragico all’inderogabilità panlogistica della predestinazione alla salvezza eterna. Il “De providentia” ritorna sempre in qualsiasi forma cristiana: in una parte più e meno altrove. La discriminante sta nel grado di rassegnazione alla realtà dei fatti antistanti. Seneca eleva le esperienze negative, nel quadro del proprio stoicismo, a fase pedagogica. E non ha tutti i torti a sostenere ciò. Esistono eventi che possono insegnare qualcosa, e a tutti. Possono insegnare l’attenzione, la serietà, l’equilibrio, l’onestà, la giustizia, l’impegno alla ricerca scientifica nella cura delle malattie. I cristiani delle origini non hanno colto lo sprone verso un umanesimo sociale, bensì in direzione di pensieri religiosi chiusi, nevrotici e dannosi. Il fatto che le malattie, per esempio, venissero considerate un prodotto di una incontestabile volontà-di-Dio ha provocato la conseguenza di scoraggiare la ricerca medica, valutata, in quanto in contrasto con il decreto divino, qualcosa di demoniaco. Donne esperte di cure naturali finirono così per essere considerate streghe al servizio del Diavolo. E simile cosa costituisce nevrosi. A dispetto degli altrui deragliamenti v’è nel “De providentia” di Seneca un brevissimo passaggio, ma che si mostra come una perla nell’ostrica: «[...] cursus [...] omnium conditor et rector scripsit [...] fata». Il carico concettuale di queste pochissime parole si manifesta enorme al nostro sguardo, poiché ci indica quell’asse di pensiero semitico unente Giudaismo e stoicismo. Il “cursus” di cui il filosofo parla è il Logos, il progetto tetico del reale concretizzantesi negli avvenimenti. Egli ci dice inoltre che esso è “fondatore” e “reggitore”, ossia “causa efficiente” e “guida, signore”. Tali sono gli attributi della divinità stoica10. Simili aspetti ci lanciano da Roma ad Alessandria d’Egitto presso la più o meno contemporanea filosofia filoniana, la quale riprendendo concetti dell’Antico Testamento teorizzava le due potenze del Dio ebraico: quella produttiva (in quanto causa realizzatrice) e quella reggitrice (mantenitrice dell’esistenza). Nella prospettiva della prima potenza la divinità è Θεός (=Eloiym), nella prospettiva della seconda è Κύριός (=Yahwèh). Filone Alessandrino, ancora Giudeo, teorizza il Logos nella funzione di “cosmo noetico divino”. Tutti questi dettagli oltre a proiettarci verso la teologia trinitaria ci conducono alla volta del Vangelo non sinottico di Giovanni11, e ancor prima in direzione del parallelo senecano a proposito del piccolo segmento testuale sottolineato. Seneca e il filosofo ebreo citato sono idealmente sovrapponibili in relazione alla tangenza evidenziata in virtù della parentela mentale semitica, dato che i loro separati e distinti pensieri originavano da una antica matrice comune. Un exemplum del genere mostra un percorso di incontro non difficoltoso. Il Giudaismo alessandrino avvicinò il vecchio mondo ebraico alla filosofia greca, poi il resto all’interno dello spazio della pax romana venne da sé. Il Cristianesimo delle origini costituiva una teologia giudaica 2.0 con la pretesa di avere la prerogativa di esclusività religiosa erga omnes12. Il progetto fu sfruttato in modo fallimentare nella ricerca di cementare e rinforzare l’Impero romano, il quale proprio a causa delle infiltrazioni ideologiche e pratiche cristiane si indebolì (non ultima la decrescita demografica incentivata da una morale sessuofobica). Seneca non mostra contenuti cristiani, semmai il contrario. Ho chiarito la cosa spiegando altresì la maniera in cui la nuova religio ha rielaborato in peggio visioni precedenti del cosmo grecoromano. Faccio notare, partendo sempre dal “De providentia”, che la morte per lo stoico non è da temere. Alla stessa guisa in cui i mali addestrano il ben disposto ad accogliere il corso della vita, quella rappresenta una liberazione dell’individuo dalla prigione esistenziale. Simile concezione stoica e senechiana, verrà portata all’estremo nella visione cristiana, nella quale la possibilità del martirio costituirà l’evoluzione verso più radicale patologia del suicidio stoico, già di per sé via di orientamento malata. La seguente parte di questa mia analisi proseguirà la parabola dell’argomentazione sulla providentia senecana collegando questa a una tematica ancora di attinenza cristiana e inerente alla letteratura italiana. Si tratta della questione manzoniana relativa alla Provvidenza cattolica ne “I promessi sposi”. Ho già puntualizzato come la providentia (Logos) degli stoici si sia configurata dentro il Cattolicesimo. Voglio adesso far osservare la maniera in cui quella concezione abbia attraversato i secoli e sia giunta vicina e prossima a noi. La concezione cattolica del Manzoni nel contesto del suo notissimo romanzo evocato prevede la “messa alla prova” (tentatio) di Lucia e Renzo, i quali “provvidenzialmente alla fine riescono a coronare il loro progetto matrimoniale (previsto dal “cursus”). La problematica manzoniana recupera controversi aspetti di quella senechiana. In primis: perché bisognerebbe essere messi in difficoltà se prediletti? Chi ti vuol bene ti educa e ti consiglia in forme positive, e anche se impegnative e faticose, pur sempre non traumatiche. Mandare disgrazie non è amorevole. Questa coppia di nubendi manzoniana percorre un iter travagliato, a mio modestissimo avviso incompatibile col sincero favore divino. Esso poi per giunta al fine di consentire lo svolgimento dell’unione matrimoniale fra Renzo e Lucia si avvale di un’epidemia di peste, molto luttuosa, allo scopo di rimuovere l’ostacolo rappresentato da don Rodrigo. Un omicidio provvidenziale a beneficio di prediletti credenti cattolici, nel quadro di un più esteso disegno che miete vittime. La providentia da Seneca a Manzoni non smette di far discutere di sé, dei suoi metodi, della sua presunta obiettiva e calibrata azione. Il testo manzoniano citato mostra ulteriormente la sopravvivenza delle antiche radici stoiche della Provvidenza cristiana, e cattolica, laddove essa si sia esplicitata con le inclinazioni ripetute dal Manzoni alla rassegnazione alla volontà-di-Dio senza reagire alle avversità secondo la guisa attivistica protestante. L’insuccesso di Renzo con Azzeccagarbugli e il fallito matrimonio ex abrupto presso don Abbondio rappresentano una bocciatura nei confronti delle aspirazioni a reagire con efficacia alle traversie: fa e sfa tutto la Divina Provvidenza, secondo il Manzoni e il suo Cattolicesimo; l’essere umano deve stare ad aspettare passivamente. Lo Stoicismo di Seneca resta tuttavia più dalla parte dei protestanti.


NOTE

Questo testo sarà inserito in un prossimo saggio critico a stampa.

 

1 Al filosofo maestro di Nerone ho in passato rivolto la mia attenzione riguardo al De brevitate vitae, vedasi lo studio intitolato Il severo monito di Seneca nel mio saggio Critica letteraria (2017).

https://danilocaruso.blogspot.com/2016/12/il-severo-monito-di-seneca.html

A proposito dell’argomento qui analizzato trovo utile suggerire quale lettura preliminare un’altra mia analisi: Dall’inno stoico a Zeus di Cleante alla fondazione del Cristianesimo collocata all’interno della mia pubblicazione Prospettive rinnovate (2023).

https://danilocaruso.blogspot.com/2023/08/dallinno-stoico-zeus-di-cleante-alla.html

 

2 Chi volesse approfondire un tale punto di vista ha a disposizione opere di altri autori che la pensano similmente. Oltre ai miei scritti, colgo l’occasione di segnalare il significativo frutto del lavoro di Karlheinz Deschner, pubblicato in più volumi nel tempo, dal titolo Storia criminale del Cristianesimo (Ariele, tomi I-X: 2000, 2001, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2010, 2013).


3 In merito a questo tema suggerisco di leggere dentro la mia monografia Ermeneutica religiosa weiliana (2013) il segmento intitolato La “Lettre a un religeux”.

https://www.academia.edu/6280171/Ermeneutica_religiosa_weiliana

 

4 Vedasi nel mio saggio Percorsi critici (2020) la parte recante il titolo I protopatristici Aristofane e Giovenale.

https://danilocaruso.blogspot.com/2020/08/i-protopatristici-aristofane-e-giovenale.html

 

5 Nella pubblicazione di nota 3 si vedano (riguardo al Giudaismo): Il Dio del Tanak non è solo, Radici egizie.

https://danilocaruso.blogspot.com/2014/09/il-dio-del-tanak-non-e-solo.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2014/09/radici-egizie-nella-cosmogonia-ebraica.html

 

6 In vista di approfondimenti paralleli consiglio la lettura di un mio lavoro: Riflessioni sopra il “De rerum natura lucreziano”, nella mia opera Analisi letterarie e filosofiche (2023).

https://danilocaruso.blogspot.com/2023/07/riflessioni-sopra-il-de-rerum-natura.html

 

7 Dell’Uticense ho parlato nella mia monografia Parricidio dantesco (2021) a pag. 9.

https://www.academia.edu/47754422/Parricidio_dantesco

 

8 Al teologo d’Ippona e al filosofo giudeo ho dedicato due lavori analitici: Nevrosi e irrazionalismo in Agostino d’Ippona e Il nevrotico e distopico idealismo di Spinoza, nelle mie monografie Teologia analitica (2020) e Distopie occidentali (2023).

https://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/nevrosi-e-irrazionalismo-in-agostino.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2023/05/il-nevrotico-e-distopico-idealismo-di.html

 

9 A tal riguardo indico una via di approfondimento mediante un mio scritto: Misantropia del Cristianesimo nella mia opera Studi illuministi (2024).

https://danilocaruso.blogspot.com/2024/07/misantropia-del-cristianesimo.html

 

10 V. nota 3.

 

11 Circa i legami sul Cristo-Logos e la filosofia della Stoà si veda nella mia pubblicazione Partita a scacchi (2022) la sezione intitolata Gesù stoico e dionisiaco.

https://danilocaruso.blogspot.com/2022/06/gesu-stoico-e-dionisiaco.html

 

12 Inerente a tale tema un libro dell’ottimo studioso ebreo Shlomo Sand: L’invenzione del popolo ebraico (Rizzoli, 2010). Ne condivido il contenuto, e, nella fattispecie della mia presente analisi, utile ricordare la conversione di gran parte delle genti giudaiche al Cristianesimo all’origine della nuova religione, la quale iniziò a diffondersi proprio dalle aree di maggiore radice semitica: il Nord Africa (punico-egizio) e l’Asia Minore mediterranea (attorno all’asse palestinocipriota). La religio di Gesù Cristo nacque, a mio vedere, come passo avanti filosofico del vecchio Giudaismo; e niente di strano che precedenti Giudei, convertiti all’Ebraismo e loro discendenti passassero al grado cristiano (Giudaismo 2.0). La nuova religiosità sviluppò un particolare feroce sentimento di avversione e di rigetto verso la forma ebraica originaria e canonica. L’antisemitismo (o antigiudaismo, per meglio dire) che ne venne fuori è stato e rimane un gravissimo atteggiamento di discriminazione e pure di violenza, il quale non possiamo trascurare nella sua genesi e nelle sue dinamiche. Ne ho parlato nei miei scritti di indagine e riflessione, puntualizzando ogni volta una indelebile, profonda, sentita condanna di simile forma di ingiustificato odio (si veda ad esempio il mio scritto Le radici cristiane dell’antisemitismo dentro la mia opera Studi illuministi del 2024
https://danilocaruso.blogspot.com/2024/07/le-radici-cristiane-dellantisemitismo.html). Io considero già Olocausto quanto patito dai Giudei perseguitati nelle società cristianizzate nei lunghi secoli precedenti il ’900. La mia posizione di serietà scientifica e di obiettività mi porta altresì a rammentare che non possiamo gettare nel cestino quanto eminenti ed eccellenti ricercatori e scrittori ebrei hanno fatto notare in relazione alle ombre nella storia del popolo giudaico (le quali ovviamente non si riversano indistintamente sopra tutti gli Ebrei). Come a proposito del Cristianesimo pure qui viene richiesta allo studioso imparzialità storiografica, la quale non può minimamente definirsi “antigiudaismo”, ma responsabilità metodologica e analitica. Voglio ricordare al riguardo alcune opere, sempre di autori ebrei, in aggiunta a quella di Sand, mediante le quali la visione storica può apparire meno ideologizzata e idealizzata. Il libro di quest’ultimo si riaggancia a quello di Raphael Patai e Jennifer Patai Wing intitolato “The myth of the jewish race” (Scribner, 1975): non ci sarebbe stata continuità cronologica nel popolo (di culto) giudaico secondo una linea biologica salda e predominante bensì sarebbero avvenuti diversi episodi, nelle epoche, grazie alle conversioni di estranei, di inglobamento di soggetti esterni. Il popolo ebraico sin dall’Antichità costituisce allora nella sua estensione un insieme eterogeneo, un’entità cementata dalla religiosità, e non da caratteri etnici di natura biologica al suo interno radicalmente peculiari. Il delicato argomento va a toccare il sensibile tema del Sionismo, in rapporto a cui voglio rammentare i lavori di due storici e di una giornalista: Vivere con la spada – Il terrorismo sacro di Israele (Zambon, 2014) di Livia Rokach; La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008) di Ilan Pappé; The iron wall – Zionist revisionism from Jabotinsky to Shamir (Zed Books, 1984), Zionism in the age of the dictators (Croom Helm Ltd, 1983), 51 documents – Zionist collaboration with the nazis (Barricade Books, 2002) di Lenni Brenner. Io giudico la “Bibbia” un testo mitologico avente alcuni tratti storici, e imperniato sopra un Dio solare neoatonista. Reputo, sulla base della pertinente archeologia antica egizia, in aggiunta ai contenuti di nota 5, che la città di Akhetaton (nei paraggi di Amarna), la cui edificazione è stata voluta da Akhenaton per dare una sede di culto alla sua enoteistica religiosità nei confronti del Sole, sia stata messa in piedi, usando mattoni di fango, proprio da quel gruppo di genti che diverrà il biblico embrione del popolo ebraico, emigrato poi verso l’Oriente. L’analogia biblica riguardo a simile modalità costruttiva cui questo fu sottoposto nella terra dei faraoni ci fa intuire una credibile rielaborazione nell’architettura statica dei fatti; ma l’architettura dinamica sembra trasparire, a mio modestissimo valutare. Il restauratore religioso Tutankhamon, come precedentemente ipotizzato da altri, dovrebbe essere il faraone persecutore dei Giudei in Egitto, i quali però, al di là delle righe veterotestamentarie, secondo me, non sarebbero nient’altro che semiti egizi fedeli di Aton (raggruppati ad Akhetaton) scappati, resi fuggitivi, e guidati dal biblico Mosè alla volta della Palestina in cerca di miglior sorte (in relazione suggerisco l’interessante lettura di un mio esame sul teocratico modello sociopolitico mosaico, una analisi presente nella mia monografia del 2020 Teologia analitica e intitolata Aristotele e il pericoloso regno di Dio
https://danilocaruso.blogspot.com/2020/05/aristotele-e-il-pericoloso-regno-di-dio_18.html). L’esigenza poggiata sulla “Bibbia”, a seguito di un diritto divino, di uno Stato della Chiesa cattolica o di uno Stato d’Israele, a mio semplice e razionalista modo di valutare, non pare raccogliere solide fondamenta. Non si può facilmente basare una simile pretesa ancorandosi a un piano mitologico. Abbiamo preso atto che alcuni ricercatori ebrei dimostrano essere la loro Nazione “popolo in senso lato” e che una parte di questo si è attivata in favore del Sionismo con modalità anche discutibili. Le ombre della storia di una frazione delle genti giudaiche riguardano pure il più lontano passato e i tempi più recenti. Pensiamo a Pasque di sangue (Il Mulino, 1a ed. 2007, 2a ed. 2008) di Ariel Toaff e a L’industria dell’Olocausto (Rizzoli, 2002) di Norman Gary Finkelstein. Apprezzo per la loro onestà intellettuale tutti questi eccellenti intellettuali ebrei che ho menzionato, una onestà intellettuale la quale ci chiede di essere precisi e completi nel nostro dire. Condanno l’antigiudaismo in maniera chiara e consapevole, come ho più volte spiegato nei miei scritti, ma non possiamo rifiutare la Storia, che è quella che è nei dati di fatto. Dobbiamo conoscere e analizzare pure le ombre, di chiunque. Con serietà scientifica e obiettività è lecito parlarne, nella guisa indicata dagli autori evocati. Quantunque non reputi razionale la base mitologica nella richiesta di esistenza di uno Stato d’Israele, tuttavia non penso di rifiutare in assoluto la possibilità di un piccolo Stato giudaico, per via del plurisecolare antisemitismo, cui mi pare giusto rispondere con un risanamento proporzionato ai fatti reali (però ovunque mai a scapito di residenti pregressi): ritengo che non necessariamente Israele dovrebbe essere sorto in Palestina, e che se comparso qui non dovrebbe configurarsi, come sottolineato non solo da ponderate personalità ebree, nella veste di Stato degli invasori. I Palestinesi hanno naturale diritto a un loro separato autonomo Stato. Questi peraltro sembrano essere i discendenti degli antichi abitanti giudei convertitisi all’Islamismo (nessuna massiva giudaica dispersione in era cristiana dalla Palestina, nella spiegazione di Sand): immaginiamo a che sorta di paradossi la Storia ci metta di fronte. Io credo che una ragionevole ed equilibrata circoscrizione dei due Stati sia oggigiorno la più saggia conclusione dell’annosa questione israelopalestinese, una questione causa di tragedie e di lutti.