di DANILO CARUSO
Il “De providentia” di Lucio Anneo
Seneca1 (4 a.C. – 65 d.C.) è una monografia scritta l’anno
precedente la morte dell’autore, rappresenta ormai un’opera del periodo di
caduta in disgrazia finale del filosofo stoico presso il suo ex allievo Nerone.
Sebbene sia facile immaginare che risenta degli umori personali di quel clima,
d’altro canto non possiamo omettere un carattere standard per una simile
redazione la quale riflette a prescindere contenuti strutturali di impronta
riconducibile allo stoicismo romano. La filosofia della Stoà, più in generale,
compare nella trattazione del saggio senechiano in forma inequivocabile,
sicché, semmai, l’atmosfera vissuta da Seneca fu di sprone a mettere per
iscritto pensieri già nella sostanza avita stoici. E quanto appena detto si
rivela veritiero nel momento in cui si notano nel testo in esame le analogie
con l’ottica cristiano-patristica. Non è il maestro di Nerone a mostrare
simpatie verso la nuova religione. I fatti hanno voluto che due filoni di
pensiero semitico (uno filosofico iniziato con Zenone di Cizio e l’altro più
schiettamente religioso legato al Giudaismo) s’incontrassero in maniera fertile
(ma secondo me negativa, alla luce di quello che sarà il Cristianesimo per
parecchi secoli2) proprio attorno all’epoca di Seneca. La comunanza
di matrice semitica delle due suddette emanazioni, mediante l’esperienza dell’Ebraismo
alessandrino3, fece sì che queste venissero fuse alla volta di una nuova
teologia, con l’obiettivo di costruire una religione-per-tutti
(cattolica). Non dobbiamo pensare che
Seneca avesse delle propensioni in tal senso. Io credo che lui sia rimasto uno
stoico integro, e che spunti di questa etica siano confluiti nella Patristica
con altri mattoni filosofico-teologici. I Padri della Chiesa erano grecoromani
in un sistema educativo ancora classico-pagano e non cristiano-medievale. Non
poco dal pensiero antico è transitato nella nuova religio4. E tra
ciò possiamo rilevare l’impianto concettuale del “De providentia”, trattato
stoico, ma che pare scritto con la testa di un novello teorico del
Cristianesimo. Ho constatato come, al di là delle righe personali stoiche e
romane, tale opera sia, per così dire, ante litteram, patristica. Ovviamente
non dobbiamo vederla al modo weiliano di prefigurazioni, bensì nella guisa poco
sopra chiarita. Analizzando il “De providentia” rileveremo elementi di etica
stoica riversatisi nella religione di Cristo con un nuovo abito, però al di
sotto del quale puntualizzata una provenienza filosofica. Nell’Ebraismo
paralleli atteggiamenti in generale esistevano dietro altra forma. La radice
semitica consentì di legarli alla luce di nuova teologica spiegazione,
impastata di filosofia perlopiù stoica e tradizione religiosa soprattutto
giudaica. Il Cristianesimo è rimasto un culto solare neoatonista5
(con radici altresì egizie dunque). Comunque, vediamo meglio i perni concettuali
del “De providentia” sulla via analitica prefigurata. Il problema centrale di questo
scritto senecano si mostra uno di quelli nevralgici nella teologia cristiana,
vale a dire la tematica del male nel mondo, soprattutto a danno di persone
incolpevoli, nel momento in cui l’universo viene considerato il prodotto di una
divinità rappresentante altresì un principio di giustizia e di equità. Tale è
il porsi del filosofo stoico all’inizio della sua riflessione, la quale, al
pari della visione cristiana, riconosce una “providentia” divina universale.
Seneca rifiuta un’origine casuale del cosmo, sostenuta d’altro canto dall’atomismo
democriteo. Pertanto il tema del perché avvenimenti negativi colpiscano chi non
se li merita in un’ottica di premiazioni/punizioni da parte della divinità rende
l’argomento del “De providentia” di non facile, snella, lineare soluzione. Se
stoici e cristiani giudicano esistente una regia provvidenziale all’interno del
contesto del reale, v’era d’altro lato un versante di pensiero epicureo e
aristotelico propenso a giudicare la divinità (per vari motivi) disinteressata
delle sorti umane e della contingenza6. Lo sforzo di Seneca nel
cercare di dare una risposta alla sua problematica stoica, ereditata poi dal
Cristianesimo, si abbandona ad argomentazioni non molto razionali. Queste
ritorneranno tali e quali nella nuova religio. La divinità, a dire del filosofo
stoico, metterebbe-alla-prova e corroborerebbe
i migliori attraverso esperienze traumatiche, dolorose, tragiche. Mi chiedo,
personalmente, se simile agire non sia da considerarsi più sadico che
appropriato e giusto. Resta dunque a Seneca un iter impegnativo nel suo impegno
a convincere il lettore circa la bontà della “providentia”. La difficoltà di
aggrapparsi a una prima risposta paradossale, emozionale e fideistica lo induce
a teorizzare nella funzione di miglior approccio al male, laddove possibile,
una reazione attivistica. Cioè: quanto non va bene dovrebbe essere corretto
dall’agire umano mosso da quello sprone. Un tale primato dell’attivismo non
sarà vivo nell’etica cattolica, lo ritroveremo nel Cristianesimo protestante
(poi ben esaminato da Weber). Seneca delinea un modello analogo al tipo delle
Giobbe veterotestamentario (amor fati). A questo momento passivo dell’esperienza
del male rimarrà legato il Cattolicesimo. Il Protestantesimo si ricollegherà al
momento attivo della visione stoico-senecana: non basta e non si deve stare a
guardare nell’accettazione del corso provvidenziale, si può verificare la
possibilità di una vita migliore. Il saggio stoico deve cercare il segno della
sua predilezione divina «laboris appetens iusti», sopportare al pari di Giobbe
le avversità estranee, inammissibili in quanto tali rispetto alla sua forma
mentis, la quale lo vuole invece coraggioso, temerario di fronte alla
situazione di pericolo. Compare qui il principio regolatore che produrrà la
figura del martire cristiano, è il principio di una mentalità semitica:
sacrificarsi, se richiesto e necessario, per la causa ideale. Da ciò Sansone,
la pazienza di Giobbe e dello stoico, i suicidi politici fra i Romani
tradizionalisti. Di questi ultimi Seneca elogia lo harakiri di Catone, il quale
non ritroveremo per caso in un ruolo di primo piano nel purgatorio dantesco7.
La vocazione al martirio accomuna lo stoicismo romano e il Cristianesimo delle
origini. Seneca nel “De providentia” affronta il tema panlogistico collegato
alla divinità (tutto ciò che è reale è
stato predeterminato da questa) e alla di essa “providentia”, postulando
che l’interesse e il benessere dell’insieme globale e generale prevalgono su
segmenti parziali. Un altro modo per dire che bisogna rassegnarsi alla
“volontà-divina”. Argomenti del genere hanno avuto vita lunga, e sempre per
mezzo di un solco di pensiero semitico incarnatosi in diversi posti. Agostino
d’Ippona col suo rifiuto del pelagianesimo che conduce sino alla
predestinazione luterana e protestante, l’Ebraismo idealistico di Spinoza che
porta fino a Hegel8. Oggigiorno anche la gente semplice esprime
delle volte non molto entusiastiche rassegnazioni alla volontà-di-Dio. In
parole povere il “De providentia” di Seneca ha attraversato i secoli e le
società cristianizzate in virtù di quei suoi contenuti, i quali lo hanno reso
un manifesto ideologicamente indifferenziato sulla Provvidenza divina e
sull’argomento del male nel mondo, un manifesto ricalcato nelle sue linee,
nelle sue idee, nei suoi spunti dai pensatori cristiani. A onor del vero debbo
però sottolineare che la teologia del Cristianesimo ha estremizzato la posizione
stoico-senecana. Seneca fa notare gli effetti collaterali di un regime di
incontrollato benessere, laddove incosciente nei di esso eccessi. Egli pone dei
richiami, condivisibili, di carattere esistenzialistico, i quali possono
offrire delle analogie di forma con equivalenti trattazioni della Patristica.
Qui, però, gli inviti senechiani inneggianti all’equilibrio, alla reazione
attivistica in guisa intelligente, vengono stravolti da un preciso indirizzo
religioso (nevrotico) il quale sposta l’azione mirando all’affermazione di
un’ideologia fideistica discutibile dove la maggiore lucidità mentale (stoica)
cede il passo alla nevrosi. L’antiedonismo etico di Seneca resta in bilico nel
“De providentia”, pronto a cadere sul lato sbagliato (cristiano). V’è un
inquietante passaggio che sarà ripreso e riproposto dai Cristiani in direzione
della patologia anoressica nel contesto del disprezzo della corporeità: «Lenior
ieunio mors est». L’ideale del digiuno cristiano, così come proposto da alcuni,
è stato fra le cose peggiori della nuova religio (ieunium=salus9), L’obiettivo
di ricercate forme di denutrizione (conducenti all’anoressia) finalizzate a
mortificare il “corpo”, luogo del peccato, ha causato vittime. Si pensi, ad
esempio, alle “sante anoressiche”. Lo spirito di fondo dello stoicismo senecano
è diverso, e mantiene un margine di “ragionevolezza” proposto in previsione di
affrontare e contrastare le avversità: «Patiamur: non est saevitia; certamen
est». Il Cristianesimo cattolico ha invece messo al primo posto una sorta di
masochistico compiacimento della “saevitia”, mettendo da parte il “certamen”. L’orizzonte
di quest’ultimo, tipicamente semitico-veterotestamentario (pensiamo alla
caparbietà di un Giacobbe) verrà riscoperto dal protestantesimo, il quale con
le sue vocazioni volontaristiche e attivistiche cercherà di dare un senso meno
tragico all’inderogabilità panlogistica della predestinazione alla salvezza
eterna. Il “De providentia” ritorna sempre in qualsiasi forma cristiana: in una parte più e meno altrove. La
discriminante sta nel grado di rassegnazione alla realtà dei fatti antistanti.
Seneca eleva le esperienze negative, nel quadro del proprio stoicismo, a fase
pedagogica. E non ha tutti i torti a sostenere ciò. Esistono eventi che possono
insegnare qualcosa, e a tutti. Possono insegnare l’attenzione, la serietà,
l’equilibrio, l’onestà, la giustizia, l’impegno alla ricerca scientifica nella
cura delle malattie. I cristiani delle origini non hanno colto lo sprone verso
un umanesimo sociale, bensì in direzione di pensieri religiosi chiusi,
nevrotici e dannosi. Il fatto che le malattie, per esempio, venissero
considerate un prodotto di una incontestabile volontà-di-Dio ha provocato la
conseguenza di scoraggiare la ricerca medica, valutata, in quanto in contrasto
con il decreto divino, qualcosa di demoniaco. Donne esperte di cure naturali
finirono così per essere considerate streghe al servizio del Diavolo. E simile
cosa costituisce nevrosi. A dispetto degli altrui deragliamenti v’è nel “De
providentia” di Seneca un brevissimo passaggio, ma che si mostra come una perla
nell’ostrica: «[...] cursus [...] omnium conditor et rector scripsit [...]
fata». Il carico concettuale di queste pochissime parole si manifesta enorme al
nostro sguardo, poiché ci indica quell’asse di pensiero semitico unente
Giudaismo e stoicismo. Il “cursus” di cui il filosofo parla è il Logos, il
progetto tetico del reale concretizzantesi negli avvenimenti. Egli ci dice
inoltre che esso è “fondatore” e “reggitore”, ossia “causa efficiente” e
“guida, signore”. Tali sono gli attributi della divinità stoica10.
Simili aspetti ci lanciano da Roma ad Alessandria d’Egitto presso la più o meno
contemporanea filosofia filoniana, la quale riprendendo concetti dell’Antico Testamento
teorizzava le due potenze del Dio ebraico: quella produttiva (in quanto causa
realizzatrice) e quella reggitrice (mantenitrice dell’esistenza). Nella prospettiva
della prima potenza la divinità è Θεός (=Eloiym),
nella prospettiva della seconda è Κύριός (=Yahwèh).
Filone Alessandrino, ancora Giudeo, teorizza il Logos nella funzione di “cosmo
noetico divino”. Tutti questi dettagli oltre a proiettarci verso la teologia
trinitaria ci conducono alla volta del Vangelo non sinottico di Giovanni11,
e ancor prima in direzione del parallelo senecano a proposito del piccolo
segmento testuale sottolineato. Seneca e il filosofo ebreo citato sono
idealmente sovrapponibili in relazione alla tangenza evidenziata in virtù della
parentela mentale semitica, dato che i loro separati e distinti pensieri
originavano da una antica matrice comune. Un exemplum del genere mostra un
percorso di incontro non difficoltoso. Il Giudaismo alessandrino avvicinò il
vecchio mondo ebraico alla filosofia greca, poi il resto all’interno dello
spazio della pax romana venne da sé. Il Cristianesimo delle origini costituiva
una teologia giudaica 2.0 con la pretesa di avere la prerogativa di esclusività
religiosa erga omnes12. Il progetto fu sfruttato in modo
fallimentare nella ricerca di cementare e rinforzare l’Impero romano, il quale
proprio a causa delle infiltrazioni ideologiche e pratiche cristiane si
indebolì (non ultima la decrescita demografica incentivata da una morale
sessuofobica). Seneca non mostra contenuti cristiani, semmai il contrario. Ho
chiarito la cosa spiegando altresì la maniera in cui la nuova religio ha
rielaborato in peggio visioni precedenti del cosmo grecoromano. Faccio notare,
partendo sempre dal “De providentia”, che la morte per lo stoico non è da
temere. Alla stessa guisa in cui i mali addestrano il ben disposto ad
accogliere il corso della vita, quella rappresenta una liberazione
dell’individuo dalla prigione esistenziale. Simile concezione stoica e
senechiana, verrà portata all’estremo nella visione cristiana, nella quale la
possibilità del martirio costituirà l’evoluzione verso più radicale patologia
del suicidio stoico, già di per sé via di orientamento malata. La seguente parte
di questa mia analisi proseguirà la parabola dell’argomentazione sulla
providentia senecana collegando questa a una tematica ancora di attinenza
cristiana e inerente alla letteratura italiana. Si tratta della questione
manzoniana relativa alla Provvidenza cattolica ne “I promessi sposi”. Ho già
puntualizzato come la providentia (Logos) degli stoici si sia configurata
dentro il Cattolicesimo. Voglio adesso far osservare la maniera in cui quella
concezione abbia attraversato i secoli e sia giunta vicina e prossima a noi. La
concezione cattolica del Manzoni nel contesto del suo notissimo romanzo evocato
prevede la “messa alla prova” (tentatio) di Lucia e Renzo, i quali
“provvidenzialmente alla fine riescono a coronare il loro progetto matrimoniale
(previsto dal “cursus”). La problematica manzoniana recupera controversi
aspetti di quella senechiana. In primis: perché bisognerebbe essere messi in
difficoltà se prediletti? Chi ti vuol bene ti educa e ti consiglia in forme
positive, e anche se impegnative e faticose, pur sempre non traumatiche.
Mandare disgrazie non è amorevole. Questa coppia di nubendi manzoniana percorre
un iter travagliato, a mio modestissimo avviso incompatibile col sincero favore
divino. Esso poi per giunta al fine di consentire lo svolgimento dell’unione
matrimoniale fra Renzo e Lucia si avvale di un’epidemia di peste, molto
luttuosa, allo scopo di rimuovere l’ostacolo rappresentato da don Rodrigo. Un
omicidio provvidenziale a beneficio di prediletti credenti cattolici, nel
quadro di un più esteso disegno che miete vittime. La providentia da Seneca a
Manzoni non smette di far discutere di sé, dei suoi metodi, della sua presunta
obiettiva e calibrata azione. Il testo manzoniano citato mostra ulteriormente
la sopravvivenza delle antiche radici stoiche della Provvidenza cristiana, e
cattolica, laddove essa si sia esplicitata con le inclinazioni ripetute dal
Manzoni alla rassegnazione alla volontà-di-Dio senza reagire alle avversità secondo
la guisa attivistica protestante. L’insuccesso di Renzo con Azzeccagarbugli e
il fallito matrimonio ex abrupto presso don Abbondio rappresentano una
bocciatura nei confronti delle aspirazioni a reagire con efficacia alle
traversie: fa e sfa tutto la Divina Provvidenza, secondo il Manzoni e il suo
Cattolicesimo; l’essere umano deve stare ad aspettare passivamente. Lo
Stoicismo di Seneca resta tuttavia più dalla parte dei protestanti.
NOTE
Questo testo sarà inserito in un prossimo saggio
critico a stampa.
1 Al filosofo maestro di Nerone ho in passato rivolto
la mia attenzione riguardo al De
brevitate vitae, vedasi lo studio intitolato Il severo monito di Seneca nel mio saggio Critica letteraria (2017).
https://danilocaruso.blogspot.com/2016/12/il-severo-monito-di-seneca.html
A proposito dell’argomento qui analizzato trovo
utile suggerire quale lettura preliminare un’altra mia analisi: Dall’inno stoico a Zeus di Cleante alla
fondazione del Cristianesimo collocata all’interno della mia pubblicazione Prospettive rinnovate (2023).
https://danilocaruso.blogspot.com/2023/08/dallinno-stoico-zeus-di-cleante-alla.html
2 Chi volesse approfondire un tale punto di vista ha
a disposizione opere di altri autori che la pensano similmente. Oltre ai miei
scritti, colgo l’occasione di segnalare il significativo frutto del lavoro di
Karlheinz Deschner, pubblicato in più volumi nel tempo, dal titolo Storia criminale del Cristianesimo (Ariele,
tomi I-X: 2000, 2001, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2010, 2013).
3 In merito a questo tema suggerisco di leggere
dentro la mia monografia Ermeneutica religiosa
weiliana (2013) il segmento intitolato La
“Lettre a un religeux”.
https://www.academia.edu/6280171/Ermeneutica_religiosa_weiliana
4 Vedasi nel mio saggio Percorsi critici (2020) la parte recante il titolo I protopatristici Aristofane e Giovenale.
https://danilocaruso.blogspot.com/2020/08/i-protopatristici-aristofane-e-giovenale.html
5 Nella pubblicazione di nota 3 si vedano (riguardo
al Giudaismo): Il Dio del Tanak non è
solo, Radici egizie.
https://danilocaruso.blogspot.com/2014/09/il-dio-del-tanak-non-e-solo.html
https://danilocaruso.blogspot.com/2014/09/radici-egizie-nella-cosmogonia-ebraica.html
6 In vista di approfondimenti paralleli consiglio la
lettura di un mio lavoro: Riflessioni
sopra il “De rerum natura lucreziano”, nella mia opera Analisi letterarie e filosofiche (2023).
https://danilocaruso.blogspot.com/2023/07/riflessioni-sopra-il-de-rerum-natura.html
7 Dell’Uticense ho parlato nella mia monografia Parricidio dantesco (2021) a pag. 9.
https://www.academia.edu/47754422/Parricidio_dantesco
8 Al teologo d’Ippona e al filosofo giudeo ho dedicato
due lavori analitici: Nevrosi e irrazionalismo
in Agostino d’Ippona e Il nevrotico e
distopico idealismo di Spinoza, nelle mie monografie Teologia analitica (2020) e Distopie
occidentali (2023).
https://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/nevrosi-e-irrazionalismo-in-agostino.html
https://danilocaruso.blogspot.com/2023/05/il-nevrotico-e-distopico-idealismo-di.html
9 A tal riguardo indico una via di approfondimento
mediante un mio scritto: Misantropia del
Cristianesimo nella mia opera Studi
illuministi (2024).
https://danilocaruso.blogspot.com/2024/07/misantropia-del-cristianesimo.html
10 V. nota 3.
11 Circa i legami sul Cristo-Logos e la filosofia
della Stoà si veda nella mia pubblicazione Partita
a scacchi (2022) la sezione intitolata Gesù
stoico e dionisiaco.
https://danilocaruso.blogspot.com/2022/06/gesu-stoico-e-dionisiaco.html
12 Inerente a tale tema un libro dell’ottimo studioso
ebreo Shlomo Sand: L’invenzione del
popolo ebraico (Rizzoli, 2010). Ne condivido il contenuto, e, nella
fattispecie della mia presente analisi, utile ricordare la conversione di gran
parte delle genti giudaiche al Cristianesimo all’origine della nuova religione,
la quale iniziò a diffondersi proprio dalle aree di maggiore radice semitica:
il Nord Africa (punico-egizio) e l’Asia Minore mediterranea (attorno all’asse
palestinocipriota). La religio di Gesù Cristo nacque, a mio vedere, come passo
avanti filosofico del vecchio Giudaismo; e niente di strano che precedenti
Giudei, convertiti all’Ebraismo e loro discendenti passassero al grado cristiano
(Giudaismo 2.0). La nuova religiosità sviluppò un particolare feroce sentimento
di avversione e di rigetto verso la forma ebraica originaria e canonica.
L’antisemitismo (o antigiudaismo, per meglio dire) che ne venne fuori è stato e
rimane un gravissimo atteggiamento di discriminazione e pure di violenza, il
quale non possiamo trascurare nella sua genesi e nelle sue dinamiche. Ne ho parlato nei miei scritti di indagine e
riflessione, puntualizzando ogni volta una indelebile, profonda, sentita
condanna di simile forma di ingiustificato odio (si veda ad esempio il mio
scritto Le radici cristiane
dell’antisemitismo dentro la mia opera Studi
illuministi del 2024
https://danilocaruso.blogspot.com/2024/07/le-radici-cristiane-dellantisemitismo.html).
Io considero già Olocausto quanto patito dai Giudei perseguitati nelle società
cristianizzate nei lunghi secoli precedenti il ’900. La mia posizione di
serietà scientifica e di obiettività mi porta altresì a rammentare che non
possiamo gettare nel cestino quanto eminenti ed eccellenti ricercatori e
scrittori ebrei hanno fatto notare in relazione alle ombre nella storia del
popolo giudaico (le quali ovviamente non si riversano indistintamente sopra
tutti gli Ebrei). Come a proposito del Cristianesimo pure qui viene richiesta
allo studioso imparzialità storiografica, la quale non può minimamente
definirsi “antigiudaismo”, ma responsabilità metodologica e analitica. Voglio
ricordare al riguardo alcune opere, sempre di autori ebrei, in aggiunta a
quella di Sand, mediante le quali la visione storica può apparire meno
ideologizzata e idealizzata. Il libro di quest’ultimo si riaggancia a quello di
Raphael Patai e Jennifer Patai Wing intitolato “The myth of the jewish race”
(Scribner, 1975): non ci sarebbe stata continuità cronologica nel popolo (di
culto) giudaico secondo una linea biologica salda e predominante bensì
sarebbero avvenuti diversi episodi, nelle epoche, grazie alle conversioni di
estranei, di inglobamento di soggetti esterni. Il popolo ebraico sin
dall’Antichità costituisce allora nella sua estensione un insieme eterogeneo,
un’entità cementata dalla religiosità, e non da caratteri etnici di natura
biologica al suo interno radicalmente peculiari. Il delicato argomento va a
toccare il sensibile tema del Sionismo, in rapporto a cui voglio rammentare i
lavori di due storici e di una giornalista: Vivere
con la spada – Il terrorismo sacro di Israele (Zambon, 2014) di Livia
Rokach; La pulizia etnica della Palestina
(Fazi, 2008) di Ilan Pappé; The iron wall
– Zionist revisionism from Jabotinsky to Shamir (Zed Books, 1984), Zionism in the age of the dictators
(Croom Helm Ltd, 1983), 51 documents –
Zionist collaboration with the nazis (Barricade Books, 2002) di Lenni
Brenner. Io giudico la “Bibbia” un testo mitologico avente alcuni tratti
storici, e imperniato sopra un Dio solare neoatonista. Reputo, sulla base della
pertinente archeologia antica egizia, in aggiunta ai contenuti di nota 5, che
la città di Akhetaton (nei paraggi di Amarna), la cui edificazione è stata
voluta da Akhenaton per dare una sede di culto alla sua enoteistica religiosità
nei confronti del Sole, sia stata messa in piedi, usando mattoni di fango, proprio da quel gruppo di genti che
diverrà il biblico embrione del popolo ebraico, emigrato poi verso l’Oriente.
L’analogia biblica riguardo a simile modalità costruttiva cui questo fu
sottoposto nella terra dei faraoni ci fa intuire una credibile rielaborazione
nell’architettura statica dei fatti; ma l’architettura dinamica sembra
trasparire, a mio modestissimo valutare. Il restauratore religioso Tutankhamon,
come precedentemente ipotizzato da altri, dovrebbe essere il faraone
persecutore dei Giudei in Egitto, i quali però, al di là delle righe
veterotestamentarie, secondo me, non sarebbero nient’altro che semiti egizi
fedeli di Aton (raggruppati ad Akhetaton) scappati, resi fuggitivi, e guidati
dal biblico Mosè alla volta della Palestina in cerca di miglior sorte (in
relazione suggerisco l’interessante lettura di un mio esame sul teocratico modello sociopolitico
mosaico, una analisi presente nella mia monografia del 2020 Teologia analitica e intitolata Aristotele e il pericoloso regno di Dio
https://danilocaruso.blogspot.com/2020/05/aristotele-e-il-pericoloso-regno-di-dio_18.html). L’esigenza poggiata sulla “Bibbia”, a seguito di un
diritto divino, di uno Stato della Chiesa cattolica o di uno Stato d’Israele, a
mio semplice e razionalista modo di valutare, non pare raccogliere solide
fondamenta. Non si può facilmente basare una simile pretesa ancorandosi a un
piano mitologico. Abbiamo preso atto che alcuni ricercatori ebrei dimostrano
essere la loro Nazione “popolo in senso lato” e che una parte di questo si è
attivata in favore del Sionismo con modalità anche discutibili. Le ombre della
storia di una frazione delle genti giudaiche riguardano pure il più lontano
passato e i tempi più recenti. Pensiamo a Pasque
di sangue (Il Mulino, 1a ed. 2007, 2a ed. 2008) di
Ariel Toaff e a L’industria
dell’Olocausto (Rizzoli, 2002) di Norman Gary Finkelstein. Apprezzo per la
loro onestà intellettuale tutti questi eccellenti intellettuali ebrei che ho
menzionato, una onestà intellettuale la quale ci chiede di essere precisi e
completi nel nostro dire. Condanno l’antigiudaismo in maniera chiara e
consapevole, come ho più volte spiegato nei miei scritti, ma non possiamo
rifiutare la Storia, che è quella che è nei dati di fatto. Dobbiamo conoscere e
analizzare pure le ombre, di chiunque. Con serietà scientifica e obiettività è
lecito parlarne, nella guisa indicata dagli autori evocati. Quantunque non
reputi razionale la base mitologica nella richiesta di esistenza di uno Stato
d’Israele, tuttavia non penso di rifiutare in assoluto la possibilità di un
piccolo Stato giudaico, per via del plurisecolare antisemitismo, cui mi pare
giusto rispondere con un risanamento proporzionato ai fatti reali (però ovunque
mai a scapito di residenti pregressi): ritengo che non necessariamente Israele
dovrebbe essere sorto in Palestina, e che se comparso qui non dovrebbe
configurarsi, come sottolineato non solo da ponderate personalità ebree, nella
veste di Stato degli invasori. I Palestinesi hanno naturale diritto a un loro
separato autonomo Stato. Questi peraltro sembrano essere i discendenti degli
antichi abitanti giudei convertitisi all’Islamismo (nessuna massiva giudaica
dispersione in era cristiana dalla Palestina, nella spiegazione di Sand):
immaginiamo a che sorta di paradossi la Storia ci metta di fronte. Io credo che
una ragionevole ed equilibrata circoscrizione dei due Stati sia oggigiorno la
più saggia conclusione dell’annosa questione israelopalestinese, una questione
causa di tragedie e di lutti.