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domenica 24 agosto 2025

SADISMO E DISTOPIA IN “SQUID GAME”

di DANILO CARUSO

“Squid game” è stata una distopica serie TV distribuita in tre stagioni tra il 2021 e il ’25. Il suo contenuto è apparso interessante alle mie riflessioni critiche sulle utopie negative, alle quali ho dedicato diversi miei lavori. In particolar modo il connotato sadico messo in scena ha trovato tangenze con miei pregressi studi pubblicati. La serie, ambientata in Corea del Sud, descrive lo svolgimento di una periodica sorta di olimpiade (o campionato, che dir si voglia) cruenta, i cui partecipanti presi fra la gente comune molto indebitata vengono di gioco in gioco (sono sei in un ciclo) se perdenti eliminati fisicamente. In virtù di queste uccisioni degli eliminati il montepremi in denaro cresce. La cosa ne sprona molti a continuare nelle competizioni, pur potendo chiedere una votazione collegiale dei partecipanti in vita al fine di deliberare una fine anticipata, con divisione del montepremi maturato in maniera equa fra tutti loro (in ciò v’è allusione al meccanismo rousseauiano della “volontà generale”). Simile sadica organizzazione è stata messa in piedi da un miliardario annoiato, desideroso di novità emozionanti, in collaborazione con altri suoi pari (nella serie sono chiamati i VIP). Elementi che nutrono la cornice sadica sono: la scelta di numerose persone in difficoltà economica (propense, grazie alla prospettiva di un ricco premio, a inserirsi nel meccanismo competitivo letale), e i giochi di confronto (i quali sono presi da quelli più noti e diffusi fra i bambini coreani). Tutto questo insieme mi è parso alimentare nei VIP un sadismo puro. Perciò ho voluto costruire una analisi pertinente che mettesse in evidenza migliore gli inquietanti e disturbanti aspetti sadici di “Squid game”. Voglio iniziare dagli spettatori sadici, i VIP, i quali riflettono bene, seppur non agendo direttamente sugli abusati concorrenti, l’ideale negativo sadiano. Sono uomini, ma compare nel secondo campionato pure una donna. La serie offre un esempio di “tirannia privata” attuata dai sadici VIP. In aggiunta, i giochi competitivi sadici rivolti ai concorrenti assumono il ruolo di tecniche di abuso, e gli allestimenti scenici di svolgimento e i sistemi meccanici prendono il luogo di spazi, tecniche e macchine sadiane di tortura e violenza. Tali gare di “Squid game” rivelano un connotato molto sadico. Questi abusati in competizione per un premio in denaro presentano analogie con casi letterari sadiani dove le vittime in mano ai sadici mirano alla sopravvivenza e a sfuggire a una punizione superiore: così accade nella serie televisiva dove al di là del sadico sprone di una vincita pecuniaria, ciascun concorrente ha il basilare obiettivo di evitare l’eliminazione fisica applicata ai perdenti. Simile dinamica orizzontale fra gli abusati innesca un aspro confronto inter se, una sadica generale gara darwiniana, la quale restituisce molto di psicologia sadista, a livello di dinamica verticale, in direzione dei VIP fruitori dello spectaculum (v’è una dimensione di scopofilia). I concorrenti in “Squid game” sono di genere misto, uomini e donne, il che vivacizza lo svolgimento non solo delle prove. All’interno di un siffatto contesto nella serie TV, e nella diversa varia pluralistica casistica sadiana, viene meno il principio di solidarietà. In “Squid game” possiamo notare l’esempio femminile di concorrente che usa la propria sessualità in funzione manipolatrice verso un altro partecipante maschio, in maniera alla lunga infruttuosa. Questo, da parte di una donna, costituisce un dettaglio molto sadiano e si riaggancia ad aspetti emancipativi sadici e femminili. Alla fine sarà proprio costei a causare durante un gioco le morti di lei e di questo suo partner inaffidabile poiché più preso dall’impellenza dell’autoconservazione. Comunque la serie televisiva testimonia una migliore resistenza dello spirito di solidarietà in alcuni concorrenti rispetto alla disgregazione in de Sade, dove la possibilità di azione dell’abusatore non lascia margine alcuno. La scopofilia dei VIP, non invasiva al 100%, lascia un piccolo spazio dove si inserisce, in modo più o meno fruttuoso, il protagonista Seong Gi-hun. “Squid game” ha riproposto lo hobbesiano “bellum omnium contra omnes”, ossia una condizione oggetto di apologia sadiana. De Sade sostiene che quello stadio di partenza sia il più autentico dell’essere umano, e che perciò non vada smarrito a causa di una sovrastruttura sociale di contenimento e di limitazione (lo Stato, il Leviatano): chiunque dev’essere lasciato libero nella propria area di “tirannia privata”. Lo scrittore francese, che nella critica sovrastrutturale ricalca Rousseau (però in guisa più che altro formale), ritrova i suoi auspicati principi sadisti in azione in “Squid game”: i concorrenti sono liberi di uccidersi sia nei giochi che fuori di essi. Ciò rappresenta un trionfo del sadismo: la competizione sadica ha comportato la perdita dell’“umanità” nei partecipanti abusati, essi sono regrediti al “cattivo selvaggio”, allo “homo homini lupus”. In tale dinamica la scopofilia dei VIP può tramutarsi in invasiva se consideriamo la forma in cui l’abusato competitore nella sua lotta possa fungere da surrogato di abusatore. Una simile cosa alimenta tutte le dinamiche di coinvolgimento orizzontale e verticale. I VIP sadici hanno letteralmente isolato le vittime dacché queste cruente competizioni si svolgono su un’isola, la quale appunto assurge a metafora dello stato psicologico verso cui l’abusatore classico di de Sade imprigiona le proprie vittime. La fattispecie competitiva di queste, a causa dell’attore sadico primordiale e principale, fa sì che loro subiscano una reificazione trasformandosi in pezzi di scacchiera davanti a costui: pezzi isolati in conflitto, i quali hanno abbandonato in modo disumanizzante la prospettiva della solidarietà, e che se sconfitti possono essere messi fuori. Vediamo infatti nella serie TV come la reificazione dei concorrenti sia simboleggiata da un pezzo mosso sopra un modello in scala di un dato gioco, pezzo che viene estromesso con significativo sgraziato e brutale gesto se il partecipante risulta eliminato. L’allegoria traspone un fondo sadico centrale permeante l’intera narrazione della serie, modellata sui più puri canoni del pensiero di de Sade. Abbiamo potuto vedere i due casi, del miliardario fondatore del campionato sadico Oh Il-nam e del Front Man, i quali si sono finti amici, sodali delle proprie vittime in maniera ipocrita e dissimulatrice inserendosi fra di questi e partecipando alle sadiche competizioni. Nel corpus letterario sadiano vi sono sadici che si approssimano ad altri soggetti a scopo manipolatorio. Ciò accade con i due poco fa menzionati personaggi di “Squid game “ a scapito della sincera indole di Gi-hun, il quale tiene la parte di una sadiana Justine, e il quale alla fine morirà al pari di costei. Gi-hun nella logica della sadica olimpiade si suicida per salvare una neonata venuta alla luce durante una serie di giochi (la madre era morta e il Front Man aveva a quella assegnato il posto di partecipazione rimasto vuoto). Non si sa se nello spin-off Gi-hun possa resuscitare: alla fine della serie madre viene dato per morto. Comunque, quanto possiamo rilevare è che il premio della virtù in entrambe le circostanze comparate risulti essere un esito distruttivo. Nonostante tutto il protagonista della serie testimonia con un gesto estremo la sua fede kantiana: l’umanità come fine in sé, e non come strumento della violenza. Gi-hun proclama ai VIP che i concorrenti abusati non sono animali: in tali parole Kant sfida de Sade. La mia analisi comparata mette in evidenza la struttura sadista di “Squid game”. Simile sadico campionato si rivela in generale in sé mezzo di tortura psicologica volta a creare disagio e tensione nei singoli concorrenti. La “gara sadica” tra vittime, aperta e organizzata, mirante alla sopravvivenza appare un tema innovativo proposto dalla serie rispetto al corpus letterario sadiano. Fra l’universo di de Sade e quello di “Squid game” c’è l’apparente differenza che qualcuno nel secondo disponga di una concreta possibilità di uscita dal circolo sadico: però a un enorme costo mentale. Il trauma provocato dalla prima olimpiade sadica cui ha partecipato Gi-hun lo ha segnato in modo indelebile, al punto di radicarlo nella volontà di voler annientare quel sistema. Il che lo ha riportato dentro in un’altra olimpiade a conclusione della quale perirà: o il trauma mantiene il suo peso nella persona che non ha dismesso dignità e umanità, o l’esperienza traumatica viene rimossa in maniera disumanizzante. Gi-hun (Justine) ha respinto la seconda, però ha finito col provocare, in guisa involontaria e indiretta la propria distruzione. Il Front Man è stato un vincitore pregresso il quale ha messo da parte quel sadico vissuto, ma nella sua circostanza è passato da vittima ad abusatore. In parole povere non c’è differenza profonda fra il cosmo sadiano e “Squid game”. Nel sadico campionato della serie televisiva lo spirito sportivo olimpico è stato sovvertito: non è più importante il partecipare, bensì il vincere a qualsiasi prezzo. La sostanziale analogia di fondo tra l’olimpiade distopica di “Squid game” e il sadismo vissuto dalle vittime nei romanzi di de Sade è un ridursi dell’abuso a una “gara personale di sopravvivenza” procrastinante la sofferenza nell’ambito di una simbolica dialettica Justine/Juliette. V’è un inciso nella narrazione della serie televisiva il quale potrebbe sembrare in dissonanza con la linea ideale sadista: l’episodio della rivolta contro i carcerieri e i VIP capeggiata da Gi-hun. Essa fallisce repressa nella violenza; già ciò la fa rientrare nei ranghi. Tuttavia questa è allegoria di qualcosa di sadiano evidente: la resistenza espressa dal personaggio di Justine rappresenta una forma di ribellione alla forma sadista. I personaggi di Gi-hun e Justine mostrano diverse tangenze, come già notato. Delle altre cose di “Squid game” manifestanti conformità col cosmo letterario di de Sade voglio dare aggiuntiva segnalazione. Cominciamo col confronto avvenuto fra il malato moribondo miliardario Oh Il-nam, creatore dell’olimpiade sadica, e il disorientato Gi-hun durante l’intermezzo tra i due campionati cui questo ha preso parte: esso ci richiama alla memoria la sadiana opera teatrale “Dialogue entre un prêtre et un moribond”. Proseguiamo. Il sadico prelievo di organi, a scopo di trapianto, dai concorrenti eliminati, morti o quasi morti (l’organo risulta in questa circostanza più fresco), curato da alcuni carcerieri guardie, rammenta con enorme disturbante efficacia la reductio ad rem dell’abusato, ma d’altro canto letterario ci ricorda altresì episodi di asportazione dalle vittime di sadici nei testi di de Sade. In tale parallelismo presenza e assenza di una finalità medica risultano dettagli irrilevanti; qua la cosa da sottolineare rimane la reificazione del corpo umano, il che appare connotato sadista cardine. Una nuova indicazione riguarda la vicenda di Kim Jun-hee, la giocatrice n. 222 della seconda olimpiade sadica cui partecipa Gi-hun. Ella è una donna incinta, di cui ho già dato un cenno più sopra, la quale partorisce nel corso delle competizioni. La macchina sadista in “Squid game” non si è minimamente presa cura di lei lasciandola nell’agone. Lei verrà estromessa, e della neonata (sostitutiva concorrente n. 222) si occuperà Gi-hun (come già detto). Vediamo tangenze sadiste che ci conducono a “Les 120 journées de Sodome”. In questo testo sadiano compare la storia di una donna incinta. I sadici abusatori qui, al fine di acquisire il nascituro al parco delle proprie vittime, non nuocciono al percorso di gravidanza. Nel confronto con “Squid game” si nota un iter invertito. Qua parrebbe che il Front Man alla fine del campionato interessato abbia una iniziativa compassionevole nei confronti della neonata (la vincitrice concorrente n. 222) giacché la prende e la lascia in buone mani con in dote il ricco premio. Simile gesto a me non sembra un ritorno d’umanità del Front Man: è stato lui a decidere la sostituzione della deceduta madre con la figlia, è stato sempre lui a non muovere un dito durante la gestazione a rischio in quell’ambiente. L’inversione dei percorsi sadisti che ho testé sottolineato non ci restituisce in questo caso un valore differente rispetto al parallelo tratto da “Les 120 journées de Sodome”. Il Front Man ha operato d’ufficio con la neonata, così come non compassionevole bensì animata da altro pensiero, era stata la forma tutelare concessa alla gestazione della vittima di “Les 120 journées de Sodome”. Notiamo infatti che entrambi i neonati entrano nella macchina sadista con identica procedura. La bambina di “Squid game” ha perso la madre nell’olimpiade sadica, e ciò rappresenta alla lunga un trauma del cui genere di effetti ho parlato. Il Front Man ha inteso mettere in salvo una Justine o una Juliette, nulla di più. Il circuito sadista si rivela coerente, a dispetto di un parallelismo invertito il quale non muta un ordine di valori, bensì registra soltanto differenti fasi cronologiche. Un’altra cosa che posso dire a proposito di “Squid game” è che le vittime messe in competizione inter se maturano una dimensione di conflitto psicologico. Nella serie TV ciò appare visibilissimo: la partita fra di loro non si gioca unicamente nei confini di confronto prescritto, ma coinvolge una sfera più ampia dove il sadico esercita la sua “tirannia privata” grazie alla diminuzione dell’empatia. Costui ha frantumato il legame umano in singoli oggetti in attrito. Di fronte a simile fenomeno la solidarietà in “Squid game” si mostra quasi sempre occasionale e strumentale, non più un fondante valore umano. Nella serie televisiva c’è un concorrente che custodisce un contenitore a forma di Crocifisso contenente pasticche di droga. L’immagine tradotta sembra dire: la religione è l’oppio del popolo (Marx). Un’affermazione la quale condivido. Salvo solo le religioni che possiedono un carattere speculativo filosofico (come ad esempio l’Induismo), e considero tutte le altre favole per adulti (in effetti, secondo me, il QI di questi se misurato mostrerebbe che molti tanto maturi non sono e che mantengono tratti di ingenuità, parallela alla semplicità dei bambini, ingenuità la quale può tramutarsi in nevrosi). Non solo marxiana può essere l’interpretazione di questo dettaglio della serie televisiva, la quale tira in ballo l’argomento religioso. In quelle pasticche di droga conservate all'interno di quel significativo contenitore possiamo vedere il “soma” huxleyano così come io l’ho interpretato nella mia monografia dedicata a “Brave New World”1. Ovviamente in “Squid game” il tono distopico è di aperta impronta tragica. Vorrei infine presentare un segmento di riflessione junghiana. L’interpretazione dell’olimpiade sadica di questa serie televisiva attraverso il simbolo/allegoria del labirinto (di prove) ci richiama alla memoria il noto mito del Minotauro, di Arianna e Teseo. “Squid game” sovverte il canonico mitologico esito liberatorio. Teseo/Gi-hun non uccide il Minotauro (Leviatano sadista), ne rimane vittima nel distopico salvataggio di Arianna, la neonata di cui inizia a prendersi cura dal gioco della fune nella serie TV (la corda qui simboleggia l’inversione del valore del “filo di Arianna” nei confronti di Teseo: non più un mezzo di salvazione, bensì sadico strumento di abuso). Il mito filtrato dall’Ombra junghiana, la quale domina il sadismo, si converte nella labirintica distopia di “Squid game”: il “filo di Arianna” condurrà Gi-hun alla sua autodistruzione, al martirio celebrante il valore della dignità umana. Oltre a paragonare il campionato sadico di “Squid game” con una struttura labirintica articolantesi in settori che presentano a chi viene costretto ad attraversarla prove molto pericolose, occorre ricordare che il labirinto inteso come occasione più ristretta e singola costituisce l’ostacolo da superare nei confronti dei concorrenti abusati durante una delle fasi di gioco sadico.



NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio intitolato “De Sade et quid ‘Squid game’ docet

1 Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley (2015), pag. 9: il “soma” quale surrogato dell’“ostia consacrata”.

DE SADE TRA FILOSOFIA E RELIGIONE

di DANILO CARUSO

Nei romanzi sadiani possiamo rilevare una tendenza di massima la quale vede il sadismo esercitato perlopiù da soggetti maschili a scapito di quelli femminili. Il potere della vis legittima ciò in una gamma che va dalla violenza fisica a quella psicologica. Tuttavia nel corpus letterario sadiano non sono solo gli uomini gli attori sadici, ci sono pure delle donne. Queste si collocano in una zona intermedia nel cosmo sadista fra canonici abusatori e vittime. L’esercizio di tale sadismo femminile viene contraddistinto rispetto a quello dominante maschile (più completo nella sua epifania) da una prassi psicologica di ripiego a causa di un mancato pieno possesso della vis maschile. Simile dinamica potrebbe evocare un femminismo sui generis in virtù di questa sua vocazione intellettuale in direzione di un lato interiore, psichico, più dialettico. Simile serie B sadista potrebbe rappresentare una sorta di rivalsa dell’intero genere. Richiamando la dialettica hegeliana “signore (abusatore maschio) – servo (donna abusata)” notiamo che il servo hegeliano, sconfitto nella vittima femminile statica, ha compiuto un salto dialettico grazie a cui alcune figure femminili sadiane si sono poste a metà tra l’abusatore classico, l’uomo, il quale può disporre in toto della vis, e le donne fragili, incapaci di reagire sul piano della forza: alle donne sadiane è rimasta appunto la carta psicologica. Loro si rivelano una conseguenza diretta della dialettica di base “servo (vittima sadiana) – padrone (attore sadico)”: prendono coscienza di fronte all’abusatore maschio e si appropriano del “diritto alla violenza”. L’usufruire agito di questo, nelle sue peculiarità femminili, le libera, giacché “libertà” e “violenza” nel sadismo si rivelano due facce della stessa medaglia ideologica. Qui la condizione dell’“essere-libero” non ammette limiti di contenimento di una deriva attivistica cruenta e traumatica, dispiegantesi a danno dei più deboli. In ogni caso sadico resta alla pratica della violenza in qualsiasi guisa un primato di “fine in sé”. De Sade ha proprio ribaltato la concezione kantiana contemplante l’umanità un “fine in sé”. Il riguardo nei confronti di questa cede il passo, in una rotazione a 180°, a un suo degrado strumentale dove si mostra l’“atto violento” ad assurgere quale faro, meta ideale. Risulta questo nel sadismo l’“obiettivo naturale”: “razionale”, se è lecita l’iperbole in orizzonte sadista, su cui moltissime aberrazioni vengono legittimate in maniera per me (seguace di tutt’altra logica) molto irrazionale. De Sade abbatte il freudiano “principio di realtà”, aprendo l’essere umano a possibilità di azione (violenta e immorale) la quale non condivido e respingo nettamente. Nel suddetto disturbante meccanismo hegeliano ricordato il signore-abusatore estremizza la sua condizione come descritta da Hegel: non mira più a un riconoscimento di sé come dominante senza sopprimere l’esistenza del servo, in de Sade il padrone-abusatore annichilisce mediante la violenza lo statuto umano del servo-vittima. Il primo non mantiene più davanti un suo simile sottomesso, bensì uno “strumento-per-la-violenza”. Dalla consapevolezza di questa radicale reificazione distruttiva alcune donne sadiane hanno tratto lo spunto in direzione del salto dialettico, assurgendo a dominatrici (manipolatrici, protagoniste ora di un sé attivo nella libertà della violenza, al cospetto di attori sadici maschi manipolati, e vittime incapaci di uscire dallo status servile, strumentale di vittima sadiana). Nei suoi romanzi de Sade cita alcuni filosofi a sostegno del suo sistema di aberrante pensiero. Ne distorce a proprio uso e consumo alcune idee con tecnica sofistica. Ce n’è uno però la cui presenza mi ha colpito in particolar modo: si tratta di Spinoza. Una tra protagonisti sadiani lo rammenta. In passato ho analizzato la filosofia di questo filosofo-teologo giudeo mettendone in luce le ombre1. Il recupero di Spinoza da parte di de Sade all’interno del suo perimetro mentale lo porta sì su una posizione estremistica, tuttavia non valuto questa possibilità disomogenea alle basi spinoziane. Altri filosofi menzionati dallo scrittore francese vengono di per sé inquadrati in sistemi di pensiero chiari rispetto a cui si coglie subito la forzatura concettuale sadista. Con ciò non voglio dire che il teologo ebreo inserito sia un teorico del sadismo. Costui in virtù delle sue fondamenta lascia la porta aperta a de Sade, contrariamente agli altri. Quest’ultimo approfitta, entra, e sviluppa il pensiero spinoziano in una direzione omogenea. Spinoza rimane pensatore molto condizionato dalla sua matrice religiosa ebraica, ambisce a una grande riunificazione stoicizzante fra Giudaismo e Cristianesimo all’insegna del suo monismo panteistico. Il sadismo viene fuori nel momento in cui andiamo a individuare aspetti ad hoc dalla tradizione giudeocristiana (storia reale e “Bibbia”). Ne tratterò meglio, in modo descrittivo, nell’ultima parte della mia analisi. Oltre a questi casi di forte impatto significativo, data la loro precedenza, producenti tangenze, esiste la questione più in dettaglio filosofica. Nella pubblicazione del poliedrico intellettuale Pierre Klossowski intitolata “Sade, prossimo mio / preceduto da ‘Il filosofo scellerato’” (Sugar, 1970) si trovano formulate riflessioni critiche a sostegno della mia impostazione spinoziana nell’approccio analitico nei riguardi di de Sade. Klossowski, al pari di me, vede la radice proveniente da Spinoza nell’idea sadista di Natura, tenendo chiaro pure che il sadismo resta incorniciato nel razionalismo materialistico illuminista. Preciso io che il sadiano determinismo (meccanicistico) della “materia”, pensata nel contesto filosofico e scientifico dell’Illuminismo, si rivela, su un piano sovrannaturale (attiguo al sensibile immediato), speculare al determinismo della Substantia spinoziana: è possibile notare nel sistema sadista, a dispetto del conclamato materialismo, una linea parallela alla res extensa, nella res cogitans, una linea su cui speculare. Klossowski fa notare la maniera in cui il determinismo sadiano rispetto a quello convenzionale illuminista assuma però forme d’espressione sadica nel suo manifestarsi. Egli sottolinea il fatto che il rapporto fra il singolo umano – “modo” spinoziano – e la rielaborazione sadiana del concetto di “divinità suprema” si intorbidisca. Questo intellettuale contemporaneo ci ricorda come il Dio agostiniano “origine del male” non sia lontano da de Sade, il quale postula il primato dell’azione violenta. L’Ente supremo sadiano (che io considero un Deus sive Natura spinoziano) menzionato da de Sade ne “La nouvelle Justine” si mostra un campione ontologico per malvagità: questo rappresenta un riferimento molto interessante ribadito da Klossowski, uno spunto il quale porterò sino alle sue estreme conseguenze. Io, in passato, ho evidenziato in altre mie analisi l’ambiguità morale di un Dio cristiano di foggia manzoniana. Sopra un altro versante di ragionamenti, ne “La nouvelle Justine” de Sade parla con tono spinoziano-hegeliano distopico riconoscendo che l’universo e i singoli risultano un’impronta di un principio primordiale (tetico e progettuale) che si stampa sui suoi prodotti: malvagia la causa di tutto, malvagi i suoi effetti (a cominciare dagli individui umani; tra l’altro Spinoza – rammento io – afferma che l’effetto esige una causa omogenea). De Sade degrada Dio a Natura materialistica, sino a diluirlo in essa, ma il Deus sive Natura spinoziano sopravvive nel materialismo illuministico sadiano. Da simile spiraglio prendo le mosse. Klossowski definisce il sistema sadista “Stoicismo ateo”. La menzione dello stoicismo a proprio vantaggio è di origine sadiana. E io so, per averlo approfondito, come il pensiero della Stoà si intrecci con Ebraismo e Cristianesimo2, proiettandosi in sede sadista alla volta di aspetti che vedremo più avanti. Qui, a proposito della pubblicazione di Klossowski, posso apprezzare che costui abbia colto l’“attivismo” nella “sostanza materiale” costituente la realtà secondo le descrizioni sadiane. Sarò poi io a proporre una connessione concettuale di più ampio raggio. Per il momento notiamo una Substantia attiva, ciclica, all’infinito, connotata da predeterminazione sovrannaturale. Klossowski è chiaro su questi attributi e sul fatto che nella misura in cui Sade parli di una possibilità di un Dio questo debba essere ricondotto a categorie sadiche. Stiamo comunque parlando sempre in termini di Deus sive Natura giacché viene esclusa un’idea di creazione nell’accezione cristiana. La Natura sadiana appare malvagia e distruttiva, e il sadico si mostra un instrumentum Dei sive Naturae. C’è una molto bella nota in questa pubblicazione che ho ripreso a mio supporto in cui si rammenta con dettaglio puntuale che Spinoza sostenga nella Substantia l’assenza di una teleologia e del diritto naturale tradotto nel diritto positivo. Mi pare che il quadro cui darò seguito abbia una solida base al di là del mio pensiero analitico personale. Klossowski non lo dice esplicitamente, ma nell’attività/attivismo della “Sostanza naturale / Natura sadiana” osserva qualcosa di idealistico in senso hegeliano. Simile taglio esegetico di de Sade, da parte di questo intellettuale contemporaneo, comporta che il criterio dialettico adombrato si noti meglio allorché egli presenta la figura dell’abusato, in parole sempre non evidentissime, quale negativo-razionale da rimuovere: la reificazione della vittima appare chiara. A ella è da applicare un passaggio di distruzione (il quale io leggo appunto come negativo-razionale hegeliano) nell’ottica di una violenza quale fine in sé. Klossowski finora ha fornito preziosissimi spunti in parallelo a me, che da adesso riprendo il timone per segnare le distanze da altre sue riflessioni in relazione alle quali non mi trovo in sintonia. Questo intellettuale nella sua analisi ha inteso ridurre a nihil entrambi i componenti della dicotomia sadista abusatore/vittima. Non la vedo così. Svilupperò questo concetto di Logos stoicizzante sadista legato a suddetta dicotomia in pieni termini di dialettica hegeliana. L’annichilimento dell’umanità dell’abusato, per me, non comporta uno speculare svuotamento dell’altro polo il quale dovrebbe giustificare il di questo disumanizzante abito mentale. L’attore di violenza, nella mia impostazione di studio, rimane “soggetto pieno” (con i connotati che verrò a dire). Klossowski, a mio modestissimo avviso, sbaglia altresì ad affermare che l’abusatore sadico abbia una coscienza della sofferenza percepita dalla vittima nella di questa coscienza. In tal modo l’attore sadico dovrebbe restituire al paziente uno sprone canonico mettendo in moto una generale dialettica emancipativa di ritorno (il seguito della dialettica hegeliana “signore-violentatore / servo-vittima”). Ciò non accade di rito nel cosmo sadista. Alcune donne fanno eccezione perché hanno trovato la non comune abilità/vocazione a uscire dalla reificazione ontologica: volendo, potremmo parlare di “predestinazione logica”. Klossowski cita Hegel per accostarlo a de Sade, ma in una guisa che giudico parziale, riduttiva, e sebbene illuminata e illuminante da un lato, dall’altro sostanzialmente deviante. Egli ha intuito una giusta direzione analitica (merito) paragonando la Natura sadiana a quella hegeliana (intesa quale “drammatizzato procedere dell’Assoluto”), però poi ha intrapreso la via di un binario morto (demerito) incanalando la sua potentissima intuizione nell’alveo di paragone con lo Gnosticismo. Non è con l’eresia cristiana e la teologia di un “malvagio Dio demiurgico” (il quale porta seco un inappropriato e fuorviante concetto di “caduta” presso de Sade) che bisogna ragionare sopra la Substantia sadiana. Questa è originaria, ed è quella che è; e si può accostare alla versione canonica del Dio biblico. Io ho scremato, semplificato (rasoio di Ockham), e preferito un cammino il quale mi è parso più rigoroso e più ricco. Non esiste nel cosmo di de Sade un concetto di “purezza decaduta”: Klossowski non ha compreso che l’intenzione sadica del Deus sive Natura sadista si rivela originaria e che non ha alle spalle un contraltare di bontà e positività. Avere introdotto nell’analisi questo, non aver sviluppato l’intuizione hegeliana in forma migliore (restata praticamente sterile) sono stati errori di questo acutissimo intellettuale contemporaneo. Il Dio-Sostanza spinoziano risulta “anarchico” in senso ontologico, agisce secondo necessità, però in completa libertà metafisica. Il tipo sadico dei testi di de Sade imita questa divinità, ambisce alla sua condizione libertaria (libertina) di anarchia. Il settecentesco scrittore francese reclama a beneficio di ogni singolo essere umano l’attribuzione dei poteri incondizionati dello Stato hobbesiano (il Leviatano), questo nel pensiero di Hobbes sorto in seguito a delega di ogni persona della propria arbitraria capacità sovrana d’azione nella primordiale fase del “bellum omnium contra omnes”. De Sade sposta la sovranità statale e le sue facoltà decisionali, normative e di arbitrato, nuovamente ad personam: il potere assoluto, sia esso inteso come attributo di un sommo ente pubblico o di una pervasiva idealistica sostanza spinoziana, va, in tale ottica sadista, assegnato all’individuo. C’è, come già ricordato, un personaggio sadiano che ricorda a suo vantaggio il razionalismo di Spinoza, e di conseguenza implicita il fatto che l’individuo umano sia una determinazione mondana (“modo finito”) del Deus sive Natura: costei, nella discutibile vocazione sadista, non fa altro che rispettare le ambigue evidenziate basi del filosofo ebreo. Ribadisco che Spinoza non fa apologia di sadismo, però il suo Dio-Sostanza non si mostra così immacolato da non poter essere agevolmente manipolato da de Sade. L’attivismo caratterizza la Sostanza spinoziana (Spinoza preferì fare l’ottico e non il professore in virtù di questo). Ciò si sposta nel sistema sadista, e si apre alla violenza (di cui ho parlato). De Sade sembra un estremista spinoziano, e in quanto tale legittima meglio l’inerenza della mia critica hegeliana su di lui. Non trascuriamo, tra l’altro, che il “determinismo sostanzialistico spinoziano” conduce alla “razionalità-del-reale” di Hegel (un problema filosofico che mette capo ad argomenti come la discussa “Provvidenza manzoniana”). Tengo sempre a sottolineare che, accanto a questi rilievi di natura metafisica in funzione critica, de Sade incornicia il suo sistema in un contorno materialistico atomistico epicureo-illuminista, il quale però come abbiamo osservato non fa di questo fuori-di-sé “naturale”, rispetto a un tetico-logico “spinoziano”, un momento esclusivo e totalizzante. De Sade sembra parecchio idealista (filohegeliano ante litteram) distopico3: la Natura sadiana (intesa come Idea, il tetico-logico; diversamente come pulsione attivistica primordiale, la libido4), costituente l’Uno-in-tutti, persegue la sua realizzazione grazie alla massima libertà alla volta della violenza sgretolante qualsiasi freno morale o legale. Rileviamo inoltre un attivismo puntualizzato nei singoli personaggi sadici che rammenta la nietzschiana “volontà di potenza” andata al di là del bene e del male a scapito dei più deboli, di coloro i quali si erano rifugiati nelle aree di sicurezza tradizionali (morale, religione e diritto positivo). Nella filosofia di de Sade simile autonomo spazio d’azione personale, sottratto al controllo pubblico statale, costituisce una “tirannia privata”. Qui l’Io, naturalmente nello specifico quello capace di imporsi, si mostra un sovrano incondizionato, legittimato all’uso di qualsiasi forma di violenza e abuso, un “machiavellico principe” in salsa sadista. Le spiegazioni sadiane materialistiche possiedono sì la loro pertinenza, non vorrei ridurle ad artificio sofistico. Avendo impostato una analisi la quale fa una lettura “metafisica” del sistema sadista, preferisco quantomeno ascrivere il materialismo sadiano alla categoria critica interpretativa di “illustrazione fenomenica”, idest di chiarimento di come funziona la Natura in quanto fuori-di-sé hegeliano, senza che tutti i richiami da Lucrezio ai filosofi illuministi in merito perdano così valore concettuale, e senza però d’altro lato perdere l’approccio metafisico spinoziano-hegeliano. Vedo dialettica in de Sade: l’oltremorale della violenza rappresenta qualcosa di tetico, un obiettivo da raggiungere; esiste una teleologia della distruzione, della sofferenza, del dolore; osserviamo un “non-darsi-della-permanenza-positiva-dell’essere” che assurge a divoratore libidico della realtà. L’irrazionalismo si fa logica dominante: è un Assoluto hegeliano distopico, impazzito. Nel sadismo non c’è limite a niente, ma anche questa affermazione si manifesta pur sempre una partenza tetica, logico-progettuale: il campo che va da Spinoza ai materialisti ci presenta il distopico idealismo assoluto sadiano, con retrogusto presocratico-eracliteo (la cui dimensione dà meglio, con incisività, la cifra della mia introspezione sadista). Esso non permette all’essere umano emancipazione, anzi lo violenta, lo reifica attraverso l’abusatore sadico il quale infierisce sugli abusati. Qui la dialettica regredisce a una forma soggetto-oggetto, “attore sadico – vittima reificata”. Colgo pertanto in tale sistema di pensiero (da cui prendo ovviamente le distanze) la realizzazione dell’abuso quale conseguimento dialettico, quale compimento della meta nell’ottica di una, non solo sadista, razionalità-del-reale. Nell’originaria dialettica servo-padrone i due contendenti, in un modo o nell’altro marciavano poi avanti in direzione di una crescita positiva. Nella dialettica sadica l’abusato smette di essere un pari umano in relazione all’attore della violenza, il quale pensa sé come unico polo soggettivo legittimo davanti a un polo oggettivo (la vittima) strumento dell’incondizionato sadista piacere della violenza. Nell’idealismo sadiano l’atto sadico si svela “razionale”e non intollerabile irragionevole aberrante arbitrio. L’abuso concretizzatosi viene concepito come un momento di sintesi (il quale prescinde dalle vittime) dove il tetico-sadico proposito dell’abusatore transita sopra il (e a danno del) fuori-di-sé (abusato in competizione o meno) verso un positivo-sadico razionale. In un orizzonte completamente diverso da quello idealistico di Hegel, naufragata una trasposizione sistemica positiva della dialettica servo-padrone, si riesce a conservare la formula generale triadica della dialettica hegeliana. Nel sistema filosofico sadiano non importa il riconoscimento del servo-abusato ridotto a oggetto non più umano; la sintesi dialettica ventura avviene tra l’intenzione tetica di violenza da parte del sadico e il suo fine realizzato sopra l’oggetto-vittima che patisce sofferenza e dolore in virtù del suo atto violento. Quello che era il servo hegeliano, in de Sade l’abusato, diviene uno strumento per raggiungere il “positivo-sadico razionale”. La sofferenza e il dolore inflitti a questo consentono di superare l’alterità, l’opposizione di simile oggetto mostrantesi quale “negativo razionale sadico”. Il sistema sadista prospetta una tetica esigenza di violenza che l’abusatore deve compiere allo scopo di realizzare un progetto che ad avviso di de Sade è universale: la violenza quale “fine in sé” rende autentica e viva la “Sostanza spinoziana” (Deus sive Natura), la quale è connotata da attivismo, transitante nei suoi accidenti umani. Nel pensiero sadiano il gesto ideale è l’atto violento, questo connota la persona realizzante la propria natura secondo le radici tetiche, specialmente nello spazio della “tirannia privata”. Tutte le altre, imbelli, deboli, legate a modelli etici diversi, al cospetto dell’Assoluto sadista subiscono il destino della reificazione. A ben guardare il Dio biblico, non si può dire che egli disdegni l’uso della forza e della violenza in modo diretto e mediante i suoi rappresentanti: il sincretico Spinoza non mi dà l’impressione di essere spunto retorico in bocca a de Sade. La presenza di violenza e violenti nella “Bibbia” si rivela significativa, non mi stupirei se avesse influenzato la creazione sadiana. Caino ammazza il fratello e Dio lo protegge; la moglie di Lot trasgredisce in maniera irrilevante una divina proibizione e tale divinità protagonista la trasforma in una statua di sale (reificazione del corpo della donna); la regina Gezabele viene fatta a pezzi, quasi fosse passata dalle mani del medico sadico Rodin, e Dio non dice niente al riguardo; Dio stermina l’intera umanità, con eccezione di Noè e dei suoi, per mezzo di un diluvio universale (sadica cancellazione di ogni rispetto umanitario a vantaggio di un non caritatevole atto di morte violenta e globale: genocidio). Tanto per fare qualche esempio. Pare che la protagonista divinità biblica, dagli exempla veterotestamentari al sacrificio di Cristo, abbia una certa predilezione ad attuare i suoi programmi attraverso dinamiche cruente. Il che non è estraneo a quanto ho sin qui messo in evidenza nel sadismo. Sostenere che il Dio biblico sia sadico, e che la cosa abbia avuto una naturale prosecuzione nelle persecuzioni religiose cristiane, le quali si sono avvalse di sadici metodi di tortura e di condanna capitale, non rappresenta a mio giudizio un’affermazione iperbolica5. Di tutto questo mondo cristiano vediamo nei romanzi di Sade una aberrante, inquietante, disturbante trasposizione. Mi chiedo: questo scrittore francese ha messo in scena gli scheletri nell’armadio della civiltà cristiana? Nella mia valutazione di studioso già espressa e argomentata in alcuni miei lavori intellettuali, sadismo e Cristianesimo sono imparentati6. Abbiamo visto che la normale dialettica servo-padrone intercorrente tra due soggetti umani nei romanzi sadiani viene meno dacché la struttura qua diventa “soggetto umano – oggetto umano” (reificazione di un polo dialettico). Ho rilevato la presenza di simile meccanismo nella “Bibbia” e nell’azione storica successiva del Cristianesimo. L’esempio principe proviene dalla caccia alle streghe: le donne divengono particolare porta del Diavolo, e se sono considerate “ianua” in generale diventano “oggetto”; l’oggetto dell’assalto sadico indicato nella suddetta dialettica sadiana violentatore-vittima. Le donne abusate dai sadici nei romanzi di de Sade e le streghe vittime torturate dai persecutori religiosi cristiani stanno sullo stesso piano. La sofferenza e il dolore sono gli strumenti liturgici di una tanatolatria sadiana7, la quale concepisce l’abuso quale il momento del “negativo razionale hegeliano”, l’abusatore nella qualità di liberatore di se stesso attraverso la violenza, e la vittima come un momento del fuori-di-sé. L’annichilimento dell’umanità (reificazione, morte spirituale), la morte fisica liberano in simile perversa e patologica versione l’abusato. Nell’annientamento finale di questo in senso lato i due poli dialettici abusatore/abusato conseguono la Totalità monistica della Sostanza spinoziana, uno scioglimento nel Tutto dimostrante una sua interna logica sadica (da rifiutare categoricamente, puntualizzo) piegata verso l’Ombra junghiana. L’obiettivo dell’Assoluto sadiano (Deus sive Natura) è l’autorealizzazione del sadico la quale assorbe il negativo razionale dell’oggetto abusato: negare l’umanità di questo allo scopo di imporre (wille zur macht8) la signoria sadica costituisce il cuore di una dialettica dove la vittima perde la sua autonomia a vantaggio di una condizione strumentale. Qui il “signore-abusatore” si configura quale “padrone assoluto” (colui-che-libera-sé-mediante-l’abuso). Al fine di rafforzare alcuni aspetti di analisi lasciati aperti, mi concentrerò da ora a proseguire la dimostrazione della validità del mio impianto evidenziando le comunanze che collegano e mettono sullo stesso piano la religiosità biblica (mitologia e storia reale) e il sadismo mediante Spinoza. Al pensatore ebreo do il posto di chiave di volta nell’arco concettuale sadista: il monismo immanentistico razionalista protohegeliano formulato nel sistema spinoziano si presta quale ottima lente d’ingrandimento sul sadismo. E appunto consente di rimarcare cose cui non si presta molta attenzione se il taglio analitico non guida in direzione di strade poco calcate, ma fertili dal canto speculativo. Il Dio biblico principale rappresenta un patrono degli eserciti di Israele, e i loro componenti compaiono quali attori di violenza. Compaiono nel testo della “Bibbia” atti violenti e di uccisione in relazione ai quali tale divinità tutelare non formula sanzione o addirittura ne costituisce la causa (prossima in qualità di esecutore, remota in veste di mandante). Pensiamo al profeta Elia che con altri suoi compagni sfida e massacra poi i sacerdoti di Baal. Dio ha sterminato l’intera umanità con il diluvio universale senza guardare in faccia nessuno (bambini, donne, anziani, ammalati, disabili): neanche de Sade è giunto a tanto nelle sue aberrazioni. Oltre al genocidio mondiale nei libri biblici compaiono fatti che non sono meno disturbanti di quelli, sì più abbondanti, leggibili nei romanzi sadiani. Dio uccide la moglie di Lot tramutandola in un simulacro di sale, e poi, più in là, Anania e la moglie Saffira perché questi non hanno consegnato a Pietro e agli apostoli la cifra piena della vendita di un loro podere (la divinità neotestamentaria non ha apprezzato l’ipocrita somma decurtata). Proseguo con femminicidi in cui Dio non interviene. Un levita offre la sua concubina a un gruppo di violentatori, i quali la stuprano sino ad ammazzarla; lui la fa a pezzi (medesima sorte della regina Gezabele, mangiata dopo dai cani) da inviare come oggetti campioni. L’usurpatrice del regno di Giuda Atalia viene uccisa per volontà del sacerdote Ioiada. Ieu, unto re di Israele, ordina la morte della regina Gezabele facendola buttare giù da una finestra (il cadavere, oggetto di vilipendio, viene fatto a pezzi). Dio rammenta l’uccisione della Madianita Cozbi, appartenente a etnia nemica di Israele, e sollecita il ricorso alla violenza omicida contro i Madianiti. In aggiunta a tali exempla, i quali farebbero la loro figura nel corpus letterario di de Sade, voglio rammentare due casi biblici di violenza senza uccisione in cui Dio al pari di sopra non interviene a sanzionare l’illiceità dell’atto: Ammon stupra la sorellastra Tamar (figlia di Davide). Nuovo caso di incesto, il quale rappresenta una parafilia sadista, era stato quello delle figlie di Lot. Pure qui Dio resta estraneo, come per il cannibalismo (altra devianza sadista) in Samaria a causa di carestia. Tutte queste cose che ho elencato dalla “Bibbia” sono imparentate con il cosmo sadiano, e simile parentela nel suo costituire una gamma di reati nella giurisprudenza intercetta in molteplice e varia maniera il “Codice penale”. Però, di solito, gli esempi sadiani inquietano parecchio; se, raramente, evidenziati quelli biblici, si cerca con acrobazie sofistiche di dare una cittadinanza teologica a, per me inaccettabile, esercizio di violenza e pratica di devianza. Spinoza recava seco un’impronta valorizzante il fondo religioso ebreaico da cui lui emergeva. Lo faceva a modo suo, ma non aveva rigettato né il Dio biblico né il suo testo sacro. C’è un ponte, anche largo, fra spinozismo e sadismo: de Sade lo ha fatto diventare d’acciaio, a ben guardare, amplificando in forma letteraria la disturbante materia in guisa iperbolica. La “Bibbia” rappresenta una silloge distopica misogina e omofobica, in essa la riduzione in schiavitù costituisce materia la quale non viene condannata. Spinoza afferma che donne e schiavi devono stare sottoposti al potere maschile signorile. Cosa impedisce l’estensione sadica di una simile idea a fronte delle basi religiose spinoziane? De Sade ha attraversato un porta aperta. I bersagli prediletti dei sadici dell’autore francese sono le donne cui infliggere dolore e sofferenza. Il Dio biblico punisce Eva, in seguito al cosiddetto “peccato originale”, con il dolore e la sofferenza del parto. Non mi sembra che né lui né i suoi fedeli, alla luce delle cose messe in vetrina, siano estranei alla dimensione sadica nell’attuare i loro propositi. Con piacere si avvalgono della violenza, organica al loro modus operandi; causano dolore, sofferenza, morte, prescindendo da una vera etica. Il Dio biblico il quale infligge le piaghe agli Egiziani non lo fa di mala voglia, bensì con gusto (sadico) nel mostrare la sua vis. Stessa cosa dicasi per gli uomini combattenti massacratori al suo servizio (exemplum patologico significativo, il masochista kamikaze Sansone). Se vogliamo infine essere molto attenti e precisi (requisiti di uno studioso serio e obiettivo), dobbiamo dire, riallacciandoci a miei ragionamenti d’apertura qui, che la figura di Giuditta (la quale uccide e decapita Oloferne), a mio modestissimo giudizio, rappresenta una sorta di veterotestamentaria ortodossa Juliette. Quella non ortodossa è la neotestamentaria Salomè, causa di morte del masochista fanatico Giovanni il battista. Uno che risulta motivo della sua uccisione per via di un credo religioso estremistico, ai miei occhi rappresenta un masochista. Il campionario di tangenze sadico-bibliche non mi pare trascurabile. Io ritengo che il corpus biblico non contenga un’etica (nel senso aristotelico o kantiano), ma esponga una “pragmatica” del potere e della manipolazione, anche psicologica, individuale e di massa. Simile ultimo aspetto ha connotato, dal mio punto di vista storiografico, per secoli il Cristianesimo, e la Chiesa (nel pensiero di Simone Weil il sommo exemplum di totalitarismo, mater et magistra nella Storia di tutti i suoi omologhi epigoni). Mio compito ora quello di individuare, in brevissima sintesi, le comunanze tra testi sadiani e Inquisizione cattolica. A tal riguardo la dicotomia “inquisitore/libertino” disvela una rosa in comune circa macchine e tecniche di tortura focalizzata sui seguenti aspetti: sospensione/stiramento del corpo, frattura/rottura delle ossa, immobilizzazioni dolorose, torture con fuoco o strumenti arroventati o meno, percussioni, strangolamenti, isolamenti, denutrizioni e privamenti protratti, torture penetrative, torture con liquidi. Tale varietà trova il Dio biblico significativamente presente in un paio di riferimenti: annega l’umanità con l’acqua (diluvio universale), distrugge col fuoco uranico Sodoma e Gomorra (omofobia). Il suo inferno, che tormenta con fiamme le anime dei dannati, si segnala pure per spirito sadico. Nella mia monografia dantesca ho spiegato le prime due cantiche della “Divina Commedia” quali scenari di un “teatro del sadismo”9. Il corpus letterario di de Sade gode di basi non sospettate e di altri epigoni italiani non sospettati: Leopardi e Manzoni10. Rimane una mia intenzione, in questo mio lavoro d’esame e di riflessione, richiamare l’attenzione sull’attivismo umano idealizzato nella “Bibbia”. Questo, la “volontà di potenza” del popolo giudaico (Nietzsche)11, si è evoluto nell’Occidente, soprattutto protestante, in attivismo capitalistico weberiano. La Substantia spinoziana predilige l’attività lavorativa manifatturiera (Marx mediante Hegel lo ha compreso chiaramente12). De Sade dell’attivismo del Deus sive Natura spinoziano ha sviluppato il perverso lato libidico13. Al giorno d’oggi, distopico obiettivo della Substantia resta l’anarcocapitalismo.Riflettendo sul possibile sviluppo della Storia futura ho inserito il sadismo come gradino nella mia psicostoria14. A proposito di essa, mi sembra il caso di rilevare ed evidenziare alcuni dettagli huxleyani presenti in quel pamphlet sadiano intitolato “Français, encore un effort si vous voulez être républicains” inserito ne “La philosophie dans le boudoir”. Il Brave New World costituisce il quarto gradino della mia fenomenologia distopica ventura e precede il sadismo, al cui interno appunto c’è qualcosa di questo mondo utopico-negativo di Huxley. De Sade postula la liceità e l’istituzione di un regime sessuale di promiscuità dacché il singolo legame esclusivo rappresenterebbe un impedimento alla pretesa altrui: una simile forma di impossessamento a tempo indeterminato viene giudicata una lesione del disegno della Natura la quale offrirebbe tutte le donne a tutti pro tempore. Il quadro di principio si mostra analogo a quello del Brave New World, dove la distopia celebra un edonismo discutibile, però soft e non traumatico, hard, come nell’universo sadiano. De Sade propone l’istituzione di una prostituzione obbligatoria, la quale in sostanza ritroveremo in “Noi” di Zamjatin15, testo meno soft di quello huxleyano. Comunque nella hegeliana utopia negativa dello scrittore russo, non sono ammessi eccessi sadici i quali l’autore del corpus sadiano invece legittima nelle argomentazioni del suo pamphlet. De Sade, qui, tra l’altro, postula un autoritario primato maschile, e rivendica uno “spazio privato legalizzato” per l’esercizio del sadismo (in modo tale da non farlo concretizzare in contrasto con le pubbliche istituzioni). Nella mia cronologia distopica ho collegato i due gradini del sadismo e del Brave New World per mezzo di due simboli: i personaggi di Lenina Crowne e Juliette. La seconda costituisce una evoluzione della prima sotto il profilo psicologico: circa il sadismo, peggiora; riguardo alla qualità intellettuale, migliora. L’antieroina sadiana, in “Juliette” (edizione del 1801), così si esprime in compagnia del re di Napoli e di Sicilia Ferdinando di Borbone: «La frivolezza non è il mio vizio; non dico lo stesso del libertinaggio... lo tengo estremamente caro; ma le plaisir de foutre non mi rende cieca al punto di non poter discutere degli interessi dei diversi popoli della terra; la fiaccola delle passioni accesa contemporaneamente nelle anime forti, quella di Minerva e quella di Venere; alla luce di quest’ultima, je fouts come tua cognata [la regina Maria Antonietta]; ai raggi della prima, penso e parlo come Hobbes e Montesquieu». Completo le mie argomentazioni sulle analogie correlando sadismo, Chiesa e anarcocapitalismo. Quest’ultimo, nella mia visione critica, concerne una sorta di teoria di “tirannia privata sadiana”: in passato già parlai dello sfruttamento della manodopera in seno al capitalismo quale una forma di stuprum/prostituzione (abuso/vendita del corpo del salariato). Il procedimento di evidenziazione accennato comporta la rilevazione di una delicata problematica di cui a volte si sente e si legge nella cronaca mediatica: l’inammissibile abuso di soggetti minori. La “Bibbia”, dal canto suo, parla di sacrificio a Dio dei primogeniti anche umani; ma c’è pure a latere quell’episodio in cui dei ragazzini presero in giro, per via della sua calvizie, il profeta Eliseo, il quale li maledisse in nome della di lui divinità, cosicché due orse sbranarono quarantadue di quegli irriguardosi (immeritevoli di simile esagerata punizione). Se pensiamo che Sinesio di Cirene (amico e allievo di Ipazia d’Alessandria, trucidata da sadici cristiani) aveva risposto al problema della propria calvizie con ironia nel “Φαλάκρας εγκώμιον”, ci rendiamo conto, altresì in virtù di altro, che un illuminato autentico senso di “civiltà umana” latita nel testo biblico. Il 29 gennaio 1975 Michel Foucault tenne una lezione al Collège de France, durante il suo corso annuale (1974-75), nella quale affrontò il tema del “mostro morale” nella Storia e nella Letteratura. Il testo di quelle lezioni è stato poi pubblicato dall’editore Gallimard Le Suil (“Les anormaux”, 1999). Di questa menzionata da me riporto un piccolissimo estratto (tradotto) riguardante de Sade, avvalendomi del diritto di citazione previsto nella giurisprudenza francese allo “Article L122-5, 3° du Code de la propriété intellectuelle”, un brano grazie al quale si coglie meglio il rapporto esistente fra potere e forma di abuso testé richiamata.

L’autodistruzione della natura, che è un tema fondamentale in Sade, questa autodistruzione in una sorta di mostruosità scatenata, si realizza solo grazie alla presenza di un certo numero di individui che detengono un superpotere. Il superpotere del principe, del signore, del ministro, del denaro, o il superpotere del ribelle. Non v'è nessun mostro in Sade che sia politicamente neutrale e mediocre: o proviene dalla feccia del popolo e ha drizzato la schiena contro la società costituita, oppure è un principe, un ministro, un signore che detiene sopra tutti i poteri sociali un superpotere senza legge.

Non sia fuori luogo ricordare che Foucault in detta sua lezione rammentò la “mostruosità libertina” della regina Maria Antonietta, propagandata fra le masse dai contestatori della monarchia assoluta francese: nel brano sadiano di sopra, Juliette fa eco a questa campagna mediatica cui de Sade si prestò essendo dalla parte dei rivoluzionari. La mancanza di sostanziale originalità di tale insano di mente intellettuale francese appare anche più ampia. Il sadismo non si mostra un’invenzione di de Sade: questo molto colto, psicopatico, capacissimo scrittore francese assume soltanto il ruolo di profeta/filosofo del sadismo. Egli è una nottola di Minerva la quale vola sul far di una sera che non vedrà mai un’alba, imprigionata nella junghiana nigredo. Disinnescare la patologia sadica grazie al possibile disvelamento dei suoi profondi meccanismi è stato il fine della mia modesta analisi. Solo la Filosofia può salvare il mondo, però una Filosofia sana, la quale non subisca il fascino dell’Ombra junghiana. Solo la Filosofia può trovare l’elemento di regresso da Hyde a Jekyll. Ho selezionato un brano da “La nouvelle Justine” (edizione del 1797) per gridare che gli esseri umani non possono e non devono cedere alla fascinosa sirena sadiana (non puoi, quindi non devi). De Sade sostiene principi ideali i quali si collocano fuori della Civiltà umana: non è possibile giustificarli, tollerarli, accettarli, elogiarli. Essi guidano alla volta di atti immorali, reati e apologia di reato. L’imperium di una iusta lex rappresenta l’espressione del Logos, il quale accomuna e lega i suoi partecipanti. Chi delinque con disonestà e senza dignità, rubando, violentando, uccidendo, pone sé nella veste di soggetto ostile alla Società. L’ordine costituito non sarà perfetto al millimetro (si può sempre migliorare e perfezionare con il sincero impegno e la profonda riflessione giuridici), tuttavia chi ha dichiarato guerra all’Insieme sociale (difeso dal “Pubblico ministero” nei Tribunali dello Stato) rimane un nemico da neutralizzare in forme civili e umane. Chi insegna e/o pratica quanto affermato nel seguente brano costituisce un "cattivo maestro".

Il movimento è l’essenza del mondo; eppure non può esserci movimento senza distruzione; quindi la distruzione è necessaria alle leggi della natura; quindi chi distrugge di più, essendo colui che impone il maggior movimento alla materia, è allo stesso tempo colui che meglio serve le leggi della natura. Questa madre di tutti gli uomini ha dato a tutti un eguale diritto a tutte le cose. È permesso, nell’ordine naturale, a ognuno di fare ciò che gli aggrada contro chiunque, e ciascuno può possedere, usare e godere indiscriminatamente di ciò che ritiene buono [peut posséder, se servir et jouir indistinctement de tout ce qu’il trouve bon]. L’utilità è la regola della legge [L’utilité est la règle de droit]. Basta che un uomo desideri una cosa, per accertarne la necessità per lui, e, dal momento che questa cosa gli è necessaria, o semplicemente gradita, è giusta [du moment que cette chose lui est nécessaire, ou simplement agréable, elle est just].



NOTE
 
Questo scritto è un estratto del mio saggio intitolato “De Sade et quid ‘Squid game’ docet
https://www.academia.edu/143597543/De_Sade_et_quid_Squid_game_docet
 
1 Si veda nella mia monografia Distopie occidentali (2023) il segmento Il nevrotico e distopico idealismo di Spinoza.
https://danilocaruso.blogspot.com/2023/05/il-nevrotico-e-distopico-idealismo-di.html
 
2 Segnalo il mio scritto intitolato Dall’inno stoico a Zeus di Cleante alla fondazione del Cristianesimo contenuto nella mia opera Prospettive rinnovate (2023).
https://danilocaruso.blogspot.com/2023/08/dallinno-stoico-zeus-di-cleante-alla.html
 
3 Affinché il quadro da me offerto non appaia assurdo a uno sguardo superficiale, rammento che prima di me e riguardo ad altro eminente materialiste, Karl Marx, il filosofo Costanzo Preve ha sostenuto la presenza di una forma idealistica hegeliana pura nel sistema marxiano. Evidentemente l’asse Spinoza-Hegel sembra coprire un campo ideologico omogeneo più esteso del previsto.
 
4 In un altro mio precedente lavoro di analisi rivolto al pensiero sadista ho impostato l’esame dal punto di vista dell’osservazione psicanalitica relegando l’autore francese sul lettino: La tanatolatria di de Sade, nella mia pubblicazione Filosofie sadiche (2021). In tale studio ho parlato del ruolo della libido nel cosmo sadiano. Rinvio alla sua lettura al fine di recuperare quella visione complementare che non esclude la presente strutturata in diversa guisa. Qua de Sade è stato pesato su una differente bilancia, di stampo filosofico. Quest’altro metro non cancella il primo, armato di mezzi presi dalla psicanalisi di Freud e dalla psicologia analitica di Jung. Il metro filosofico toglie de Sade dal lettino, poiché lui è stato un filosofo. Gli restituisce in qualche modo una parità nel confronto con me: non è più la “mia” lettura psicanalitica a bloccarlo, è la “sua” costruzione filosofica sadista a farsi avanti da sé. Come in Spinoza alzare un braccio e pensare di alzare quel braccio costituiscono la medesima cosa nella Substantia, così leggere le mie due analisi su de Sade significa leggere lo stesso soggetto da complementari utili angolazioni.
https://danilocaruso.blogspot.com/2021/01/la-tanatolatria-di-de-sade.html
 
5 Accanto ai miei pertinenti lavori, suggerisco di andare a vedere Storia criminale del Cristianesimo (Ariele, tomi I-X: 2000, 2001, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2010, 2013) di Karlheinz Deschner.
 
6 Ne ho parlato in alcuni miei saggi: Teologia analitica (2020), nella parte recante il titolo Cristianesimo razionale e nazional-socialismo in Thomas More; Filosofie sadiche (2021), nella sezione intitolata L’irrazionalismo nevrotico di Kierkegaard; Oscurantismo e irrazionalismo del Cristianesimo in Tertulliano (2023); Studi illuministi (2024).

https://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/cristianesimo-razionale-e-nazional.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2020/12/lirrazionalismo-nevrotico-di-kierkegaard.html

https://www.academia.edu/106504462/Oscurantismo_e_irrazionalismo_del_Cristianesimo_in_Tertulliano

https://www.academia.edu/122120564/Studi_illuministi
 
7 Vedi nota 4.
 
8 In direzione di un approfondimento il mio studio anche nietzschiano indicato nella nota 10.
 
9 Parricidio dantesco (2021).
https://www.academia.edu/47754422/Parricidio_dantesco
 
10 A proposito di sadismo in questi due autori, due miei studi: Leopardi e Nietzsche: i profeti del male?, nel saggio indicato in nota 3; la monografia Sadismo e oscurantismo religioso in Alessandro Manzoni (2025).

https://danilocaruso.blogspot.com/2021/02/leopardi-e-nietzsche-i-profeti-del-male.html

https://www.academia.edu/130097555/Sadismo_e_oscurantismo_religioso_in_Alessandro_Manzoni
 
11 Si veda la nota 8.
 
12 Per approfondire consiglio di leggere nella mia opera Critica dell’irrazionalismo occidentale (2016) recante il titolo Il gioco capitalista degli Elohiym falsi e bugiardi.
https://danilocaruso.blogspot.com/2016/10/il-gioco-capitalista-degli-elohiym.html
 
13 Vedi nota 4.
 
14 In calce il quadro sinottico e appresso l’elenco dei miei specifici scritti inerenti alla mia filosofia della distopica storia ventura (psicostoria). Ciascun testo in merito è presente all’interno di miei saggi (la sequenza è cronologica in relazione alla pubblicazione). Tali miei lavori sorgono come analisi autonome che parallelamente si offrono a illustrare l’intreccio ipotizzato in una cornice dotata di una interiore logica.
 
1) Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley (saggio del 2015);
https://www.academia.edu/14615660/Il_capitalismo_impazzito_di_Aldous_Huxley
 
2) La terribile distopia di H. G. Wells, in Critica letteraria (2017);
https://danilocaruso.blogspot.com/2016/11/la-terribile-distopia-di-h-g-wells.html
 
3) La tanatolatria di de Sade, in Filosofie sadiche (2021);
https://danilocaruso.blogspot.com/2021/01/la-tanatolatria-di-de-sade.html
 
4) Una distopica ginoide contro la mantide religiosa, Sex doll prima del Brave New World, Tra Primavera Bobinski e la sadista Justine, Attacco all’inconscio collettivo, in Letteratura e psicostoria (2022);
https://www.academia.edu/75613515/Letteratura_e_psicostoria
 
5) Induismo e Occidente, in Partita a scacchi (2022);
https://danilocaruso.blogspot.com/2022/10/induismo-e-occidente.html
 
6) La distopia della sciocchezza dei fratelli Strugatzky, in Distopie occidentali (2023);
https://danilocaruso.blogspot.com/2023/05/la-distopia-della-sciocchezza-dei.html
 
7) Intelligenza artificiale e stupidità naturale, in Ritorno critico (2024).
https://danilocaruso.blogspot.com/2024/05/intelligenza-artificiale-e-stupidita.html
 
8) Teologia transumanistica e transgenderista, in Novità e ripresentazione (2025).
https://danilocaruso.blogspot.com/2025/02/teologia-transumanistica-e.html



 
15 A questo romanzo distopico ho dedicato una mia monografia: L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015).
https://www.academia.edu/13469501/L_antipanlogismo_di_Evgenij_Zamjatin

lunedì 23 giugno 2025

I PROFILI SADISTI DI LUCIA E GELTRUDE MANZONIANE NEL “FERMO E LUCIA”

di DANILO CARUSO


Il n’y a de délicieux au monde
 que les jouissances despotiques; 
il faut violenter l’objet que l’on désire.

D. A. F. de Sade, “La nouvelle Justine”


Il “Fermo e Lucia” di Alessandro Manzoni (1785-1873) è un romanzo che costituisce il primo stadio (1823) da cui si evolverà la versione ufficiale de “I promessi sposi” (1827), poi di nuovo rivista sotto il profilo linguistico a beneficio della lingua italiana toscaneggiante (1840). Il manoscritto del 1821-23 fu integralmente pubblicato nel 1916 a cura di Giuseppe Lesca dalla Società anonima editrice Francesco Perrella a Napoli. Da tale edizione provengono i pochi brani citati. A me della prima originaria opera qua interessano solo gli aspetti concettuali in quanto la mia analisi predilige i dettagli che più si prestano alla lettura psicanalitica e ideologica. Nel primo tomo del “Fermo e Lucia” si avverte subito un’aria misogina giacché l’autore definisce Lucia Zarella «donnicciuola» e «di una modesta bellezza», lei e la madre «due donnicciuole», definisce inoltre la donna in generale «persona di quel sesso terribile». Io giudico riguardo a «modesta bellezza» che il Manzoni abbia voluto dire proprio che Lucia non fosse molto attraente, e non che fosse dotata di un «ornamento [...] quotidiano» di bellezza disadorna. Lui la sta descrivendo mentre ella indossa l’abito nuziale, e mi pare che abbia affermato che senza di quello (e tutto il correlato matrimoniale) non fosse gran che sotto il profilo estetico. Nelle maniere retoriche della lingua italiana l’aggettivo preposto al sostantivo assolve a un compito assoluto di descrizione (la bellezza di Lucia è modesta), quello posposto circoscrive, differenzia crea un’opposizione di unità (sarebbe stata “la bellezza modesta di Lucia” antitetica alla “bellezza immodesta”: Lucia sarebbe stata bella, ma semplice). L’aggettivo preposto si comporta come un moltiplicatore: rende positivo o negativo in assoluto, in astratto, il moltiplicando senza andare a fare paragoni, confronti. Nel merito strettamente semantico dell’aggettivo usato dal Manzoni va ricordato che questo deriva dal latino “modestus”, a sua volta proveniente dalla radice di “modus” (misura, moderazione, maniera). In italiano “modesto” allorché non funge da predicato di persone, bensì di qualità, possiede il comune significato di “mediocre”. Il Manzoni avrebbe detto di Lucia parafrasando: di una mediocre bellezza. Rimane ovvio che non si può escludere una predicazione aggettivale sopra qualità astratte o fisiche espresse in un sostantivo cui si voglia attribuire “l’esercizio della modestia (traslata coscienza della personale limitata altezza)”. Però se volessimo parlare di un’intelligenza che fa professione di modestia pare meglio dire: un’intelligenza modesta. E non dire: una modesta intelligenza. Perché nell’ultimo caso l’impressione, con l’aggettivo preposto sembra tutta concentrata sulla “mediocrità assoluta in sé”, senza procedere a distinzioni puntuali. Est modus in rebus, ma nel caso di Lucia non est modus in beauty. Costei si mostra una ragazza molto legata alla religione cattolica, ha assorbito il nevrotizzante indottrinamento di base. Agisce e parla consapevole, rassegnata, contenta (?) di stare in serie B nel mondo cristianizzato. Il Manzoni apprezza simile modestia (virtù) e proclama: «Noi amiamo Lucia come cosa rara non dirò nel suo sesso, ma nella specie». Il che si rivela una rinnovata perla di antifemminismo. Ci ha detto che non sembra attraente, ha definito le donne terribili, l’ha chiamata (assieme alla madre) donnicciuola. Quest’ultimo termine è spregiativo: indica in senso lato soggetti volti al pettegolezzo e/o imbelli. Ecco cosa sono le donne agli occhi dell’autore de “I promessi sposi”. Il secondo tomo del “Fermo e Lucia si apre con un ragionamento manzoniano preciso. L’autore disapprova le descrizioni vive e particolareggiate degli amori nelle narrazioni giacché potrebbero stimolare la fantasia e l’interesse non appropriati di uomini di Chiesa. Le disapprova in generale ritenendole fuori luogo nel contesto di una morale comune la quale in queste passaggi letterari vuole attenta alla censura di contenuti apertamente sentimentali ed erotici. Fin qui niente di strano nelle postulazioni di uno scrittore cattolico (di qualsiasi epoca). La stranezza emerge quando incomincia a parlare della Monaca di Monza presso il cui monastero è andata a finire la povera Lucia. Abbiamo già capito che il non essere attraente di costei si addica alle pie donne cattoliche. Mostrarsi donne attraenti costituisce un problema davanti alla dottrina cristiana, in aggiunta alla già più semplice questione di rappresentare porte dell’inferno. Un cappuccino ha accompagnato Lucia e la madre dalla Monaca di Monza e gli ha chiesto di stare nel tragitto a distanza di sicurezza da lui, preoccupato che «si vedesse il padre guardiano con una bella giovane [subito correggendosi;...] con donne per la via». Lucia non si è convertita in bella di colpo, è diventata porta del Diavolo tosto associata alla madre nel «sesso terribile». Nella mente di questo cappuccino l’aggettivo «bella» rimanda al piano semantico di “pericolosa”, non possiede una valenza estetica bensì etica. Simile meccanismo di significanza viene avvalorato dalla condotta narrativa manzoniana che si spende meglio a fondo nella descrizione dell’aspetto della Monaca di Monza. Cito, tralasciando il resto un piccolissimo brano il quale trasuda misoginia: «L’aspetto della Signora, d’una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po’ conturbata, ma singolare, poteva mostrare venticinque anni». Il Manzoni ci racconta il cammino di monacazione della Signora costretta dal padre, un Marchese (una eco sadiana?), a seguire un destino religioso. Nella narrazione della giovinezza di lei, contravvenendo in maniera plateale al principio della censura enunciato poco prima, addirittura ci presenta, in guisa che sinceramente disorienta, una Lolita: «A misura ch’ella si avanzava nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una avvenenza non comune agli anni della giovanezza». C’è anche alla vigilia della presa definitiva dei voti il tentativo da parte di costei, dipinta orgogliosa e passionale dal Manzoni, di un approccio amoroso verso un paggio di casa. Meno male che lo scrittore milanese si prefiggeva di non suscitare pensieri inopportuni. Nella dicotomia esistente tra Lucia e la Monaca di Monza l’autore del “Fermo e Lucia” riprende quella sadiana fra Justine e Juliette. Tuttavia inverte alla luce della sua gabbia mentale religiosa l’esito in rapporto al successo. La storia della monacazione di Geltrude costituisce una vicenda di violenza psichica perpetrata dal padre a scapito della figlia: uno scenario sadico celato dietro gli interessi patrimoniali familiari. L’andare-dentro-una-struttura-religiosa accomuna Lucia, Geltrude, Justine. Con la seconda che, facendo da contraltare alla prima, rammenta Juliette. Geltrude è entrata in monastero malvolentieri, forzata, violentata nell’animo. Chi è vittima di abusi porta seco un trauma che può trasformare questa in un soggetto abusatore. Così è accaduto alla Monaca di Monza, di cui il Manzoni ci informa che fosse cosciente di una sua superiore avvenenza rispetto alle altre che la circondavano. Il cruccio di tale privilegio estetico inutile in un luogo di isolamento religioso femminile ha contribuito a inasprirne lo spirito. Perciò, divenuta docente delle fanciulle ospitate per ricevere una formazione educativa, si accanisce sulla loro naturale spontanea giovialità, volendo (a sua volta) praticare una sadica azione. Ma questo tiaso di Geltrude non viene unicamente a vivere nell’oppressione psicologica, e può rovesciarsi, in un meccanismo governato dal bipolarismo, in uno spazio di discussione salottiero dove lei s’immerge e nuota nei discorsi riversati. Simile oscillazione di comportamento di Geltrude appare di evidente natura patologica, e derivante da un mancato equilibrio interiore pregiudicato abbondantemente prima durante la sua vita familiare, la quale contribuì a imprimere in lei la potenza di una psiche tirannica che avrebbe sotterrato quella dell’indifesa e debole fanciulla sconfitta dalle circostanze. Una psiche tirannica venuta fuori in monastero e legittimata dalle sue prerogative di classe sociale alta. Il Manzoni ha affermato di non voler turbare nessuno, però con la Signora ha aperto un romanzo psicologico molto profondo, molto lontano dalle sue declamate direttive. Il convento, il monastero, quali luoghi di trasgressione sono topoi sadiani: la Geltrude manzoniana non vi risulta estranea. Diviene ella infatti l’amante di Egidio, farabutto donnaiolo, abitante attiguo al monastero della Signora. Costei ha accanto a sé due suore al suo servizio, le quali saranno inglobate nel sistema della tresca. Una di loro prima di aderire a suddetto circuito aveva esternato suoi sospetti in merito a carico della Monaca di Monza all’orecchio di una compagna, la quale, sebbene poi rassicurata con la scusa di un presunto errore di valutazione da parte della servitrice, ebbe l’ardire di mal reagire all’incostante tirannica Geltrude minacciando di rivelare quei sospetti all’autorità religiosa. La serva della Signora, secondo il piano convenuto dai quattro con a guida Egidio, uccide la suora che rappresentava un pericolo per loro, e il cadavere dal monastero viene trasportato e seppellito nella confinante proprietà di e da Egidio. La storia di questi scellerati organizzatori di un assassinio, con occultamento del corpo, tinge di tinte oscure e forti questa sezione del romanzo, il quale predilige il dilungarsi in ricche descrizioni dei caratteri negativi. La caccia a Lucia e il suo rapimento, prima fallito dai bravi del nobile spagnolo, poi riuscito sotto l’egida del Conte del Sagrato, cui l’altro si è rivolto ad hoc, a me ricorda un po’ quegli inseguimenti di sadico svago messi in atto in “The sound of his horn” di Sarban1. La povera Lucia in simili momenti del romanzo pare proprio una di quelle vittime travestite da animali alle quali viene data la caccia quasi fossero volpi. Il sadismo velato e soft del “Fermo e Lucia” convive con la misoginia. È lampante la guisa in cui Lucia e Geltrude (Justine e Juliette) vengano indicate quali cause di mali. Le donne sia che si sposino, sia che si facciano monache, sono, in tale quadro manzoniano, possibile origine di sviamento per gli uomini. Fermo vuol unirsi in matrimonio a Lucia, però costei muove l’interesse di Don Rodrigo. Qualcosa di analogo accade col personaggio di Geltrude. Se la Signora non avesse avuto un amante, Lucia sarebbe rimasta nel di lei monastero poiché Egidio, amico del Conte del Sagrato, da questo messo in azione alla volta del rapimento della ragazza, non avrebbe potuto persuadere la Monaca di Monza a farla uscire dalla struttura con l’obiettivo di catturarla. Come si vede le donne sono ianua Diaboli. Le uniche buone sul serio devono navigare nel medesimo canale della Zarella. Il Manzoni ci dice che Lucia mena sempre seco il rosario, e che, prigioniera, calandosi nei panni di una martire cristiana la quale non ha voluto cedere al suo pagano amoroso pretendente, ha rivolto voto alla Madonna di castità purché questa la faccia uscire salva da quella circostanza. Tale si rivela la donna comune ideale del Cattolicesimo manzoniano: colei che rinunzia alla contaminazione sessuale. E, al pari di una rivestita di santità, Lucia riuscirà a mettere in crisi l’animo del suo carceriere, il quale attraverso di ella prenderà miracolosa coscienza delle sue scelleratezze: percorso surreale, acrobatico, alquanto fantastico. Vedo nella giovane promessa sposa il simbolo dell’“anima junghiana” dello scrittore milanese. Il trattamento riservato alla nubenda nei frangenti del rapimento, della prigionia e della liberazione, sotto un profilo psicanalitico dinamico mi ha rievocato l’eutanasia di Mabel Brand in “Lord of the world”. Là, ho spiegato, nel mio pertinente saggio bensoniano2, essere costei il simbolo dell’“anima junghiana” di Monsignor Robert Hugh Benson. Questa in punto di morte riceve la grazia dell’illuminazione divina, e di una conseguente conversione in extremis vitae. Io ho meglio chiarito che si maschera invece il complesso nevrotico il quale assediava l’Io dell’autore inglese. Parallelamente qua col Manzoni notiamo un imbrigliamento psichico della parte di contraltare sessuale, ma senza che si persegua un cammino estremo e irrimediabile. Al Manzoni le donne interessavano, a Benson no: il primo ha potuto frequentarle e sposarsi due volte, il secondo era congelato dentro un voto di castità. Pertanto a differenza di Mabel, Lucia sopravvive. Però lo fa imprigionata nel binario nevrotico manzoniano. Quel voto di castità della sposa promessa sta per un tentativo di “suicidio bensoniano” (mi riferisco alla vicenda della moglie di Oliver Brand, non sto parlando di azione dell’autore inglese). Lucia, anima junghiana manzoniana, si pone sotto scacco (nevrotico) in attesa che un agente nevrotico eviti il matto in maniera inequivocabile: Manzoni non vuol perdere la donna a fine sessuale, Benson non poteva e dunque ha eliminato Mabel. Il voto di castità di Lucia, sentitasi in pericolo, si mostra il frutto di una mente masochista oppressa da un dominante sadico. Fermo, che il Manzoni ha definito «minchione», ritrova in conclusione colei, la sua promessa sposa, la quale io ho ritenuto masochista. Ella oppone alla rinnovata prospettiva nuziale di lui il proprio voto di castità rivolto alla Madonna, di cui sopra. Sarà Padre Cristoforo a scioglierlo e a restituire ai due sposi promessi la strada del matrimonio. Uno sguardo ingenuo direbbe: tutto a posto. Per me, no. Il frate ha compiuto un atto gravemente dissacratorio nel cancellare un impegno (positivo) di peso superiore nei confronti della Vergine, un impegno seguito il quale aveva rimosso quello nei riguardi di Fermo. Il voto di castità di Lucia correlato a ottenimento di miracolo non può essere sciolto senza sacrilegio. V’è più di un motivo teologico per dire che Padre Cristoforo abbia compiuto un atto sacrilego paragonabile alla celebrazione eucaristica tenuta da Padre Jérôme sopra πυγή di Justine. Posso aggiungere, a proposito della maniera in cui il cappuccino ha liberato la masochista Lucia dal suo voto di castità, che così operando l’ha riconsegnata alla sua dimensione di porta del Diavolo. Voglio riportare la chiusura del manoscritto del “Fermo e Lucia”, dove la masochista protagonista ci spiega “le sventure della sua virtù” (culminante, schiacciante analogia Justine/Lucia): «Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: “d’allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra”. Lucia però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: “Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire”, aggiunse ella soavemente sorridendo, “che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te”. Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate attirano bensì ordinariamente de’ guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende utili per una vita migliore. Questa conclusione benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia». Notiamo che sino alla conclusione la bassa opinione patristica sulle donne non abbandoni il Manzoni. Ma poi guardando il destino della sua Lucia (anima junghiana) non posso in extremis sottolineare altra analogia sadiana: le donne servono soprattutto per scopi sessuali, ecco perché Lucia non è finita col farsi suora (o restare nubile).


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio intitolato “Sadismo e oscurantismo religioso in Alessandro Manzoni”
 
1 Una mia analisi di questo romanzo, Il nazisadismo di Sarban fra spirito del tempo e spirito del profondo, nella mia pubblicazione Studi illuministi (2024).
https://danilocaruso.blogspot.com/2024/07/il-nazisadismo-di-sarban-fra-spirito.html
 
2 L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson, uscito nel 2017.
https://www.academia.edu/33666516/L_apologia_dell_irragionevole_di_Robert_Hugh_Benson

giovedì 13 marzo 2025

IL XXIX SECOLO DI WALTER BROWNE

di DANILO CARUSO
 
 
People learn in time to love even fossils.
 
Walter Browne, “2894”
 
 
Incuriosito dal titolo di un romanzo di Walter Browne (1856-1911; Inglese, cantante d’opera, autore e critico teatrale, romanziere), ho voluto esaminare il testo: ‘“2894” or The fossil man (A mid-winter night’s dream)’. Mi appassionano le visioni narrative del futuro che altri intellettuali, anche di età passate, e geograficamente in tanti casi lontani da me, hanno formulato sia in forma utopica che distopica. Nel tempo sono divenuto un cultore delle distopie. Nella nostra era, in cui la gente ha molta difficoltà a comprendere gli eventi, la nottola di Minerva non vola forse neanche all’alba. È già immaginario, fantasioso e fantastico il presente di chi non va oltre l’unidimensionalità marcusiana. Mi pare che una parte di esseri umani vivano in una sorta di medioevo tecnologico senza spirito critico, senza approfondire, senza documentarsi sul serio, in balia di imbonitori, a volte non più raffinati dei primi. “2894”, uscito nel 1894 negli USA, immagina un mondo a un millennio di distanza dall’autore. Tale romanzo non è né utopico né distopico. Raffigura un futuro con pregi e difetti. È la scelta dello scrittore di farlo torbido, magmatico, senza puro idealismo, negativo o positivo. Una simile opzione mi ha fatto pensare all’Inconscio collettivo e alla sua attività che mescola insieme tutte le esperienze di coscienza umana. Io sono junghiano, perciò, la mia analisi sarà secondo questo indirizzo. Walter Browne in questo romanzo intravede un sovvertimento del tradizionale avito ruolo dei generi sessuali: nel futuro le donne prenderanno il sopravvento grazie a una superiore intelligenza sopra gli uomini connotati dalla vis. Ma non bisogna andare molto avanti nel tempo per osservare un’ampia fetta di popolazione maschile poco riflessiva e alquanto bestiale. In “2894” il protagonista, Lord Ammonite, mira a sposare una donna di cui è innamorato. Costei nella mia decriptazione analitica testuale rappresenta l’“anima” junghiana ossia la parte psichica interiore di un soggetto maschile contrapposta al proprio complesso dell’Io. Tutta l’esperienza fantascientifica che Lord Ammonite vivrà si scoprirà alla fine del romanzo essere stata un sogno. Questo rappresenta un dettaglio molto importante nella mia ottica, confermante il piano di un’esperienza più legata ai canali della psiche che non alla semplice fantasia creativa. Arthur Schopenhauer già in una sezione di “Parerga und paralipomena” aveva spiegato come la via onirica portasse a qualcosa di misterioso: in parole povere aveva intuito l’esistenza dell’Inconscio assoluto. In “2894” quel mondo a venire descritto proviene da una proiezione dell’Inconscio impersonale rivolta all’Io di chi lo esperisce attraverso l’apertura del canale dell’“anima”. Il protagonista in virtù di ciò raggiunge l’“individuazione” junghiana. In conclusione del testo di Browne si risveglia in possesso di una coscienza spirituale più matura e meglio posata. Quell’unione matrimoniale finale ambita non costituisce nient’altro che la sizigia. Adesso diamo un’occhiata a quella società del 2894, la quale in assoluto, non è né buona né cattiva, giacché l’Inconscio collettivo elabora senza forma morale; per così dire, fa una media, produce un estratto sintetico (in particolar modo l’archetipo). Tocca poi agli esseri umani più saggi rendere quei messaggi giovevoli, quegli avvertimenti efficaci, a beneficio dell’intero consorzio umano (da qui tutte quelle figure istituzionali dell’antichità preposte a interpretare e decodificare i segni del numifico). Sono rimasto un po’ deluso a non vedere nel XXIX secolo diverse tecnologie ormai diffuse ora quali televisori, smartphone, computer. C’è comunque una telefonia la quale assomiglia alla messaggistica istantanea. Nel romanzo Lord Ammonite sogna di essere morto a causa di una globale catastrofe naturale, e che il suo corpo fossilizzato sia scoperto e rianimato da una scienziata discendente della sua amata e identica a lei. Potremmo dire che ciò metta in scena l’uscita dalla “nigredo”. L’umanità del 2894 usufruisce di un’ingegneria genetica che precorre le incubatrici del Brave New World: da componenti animali è possibile produrre esseri umani, viventi però un arco cronologico collegato alla specificità di esistenza media della bestia che ha fornito il materiale biologico. Uno scenario più inquietante dell’universo huxleyano parallelo celebrante l’edonismo prolungato1. Notiamo che Browne associ aspetti distopici a inclinazioni utopiche in un miscuglio che relativizza la bontà di una singola cosa all’uso che se ne fa. Cosicché: il femminismo appare buono laddove elimina la misoginia, ma non dove fa diventare gli uomini il sesso debole; la scienza si rivela positiva nella misura in cui migliora la vita, con ad esempio sistemi di viaggio più efficace, tuttavia si mostra distopica nella suddetta aberrazione biogenetica. Nel 2894 il lavoro manuale è altresì diminuito, a scapito del corpo umano, adeguatosi a una forma di lassismo: non è bene non coltivare le abilità pratiche e manuali; se la società libererà gli uomini dal lavoro manuale, rimarrà comunque utile sapere usare con raffinatezza le mani dedicandosi a un’arte, a un hobby, a un orto, a qualcosa che non renda praticamente inutili. Non si vive di sola teoria: si mostra buono e utile muoversi, e con perizia. Il romanzo di Browne nel suo immaginare il futuro riporta il recupero di un esemplare di indigeno africano allo stadio ottocentesco dell’autore: la regressione procedurale dall’evolutosi del 2894 e la descrizione narrativa di ciò non sono esenti da un’atmosfera di suprematismo bianco, il quale sembra aver indicato la via biologica dominante nel XXIX secolo. Presentare i bianchi quale specie espressione dell’optimum costituisce razzismo, in qualunque epoca e in qualunque posto. Gli Africani deportati nelle Americhe e schiavizzati per secoli rappresentano una pagina di indelebile vergogna per la Società occidentale e per i colonizzatori europei. Le discriminazioni a detrimento dei neri sono perdurate molto a lungo, e pure oggi assistiamo a inauditi gesti di sopraffazione. Tutta questa fenomenologia non ha ricevuto e non riceve il risalto di cui altre godono. Per i crimini contro l’umanità a scapito degli indigeni africani e americani non c’è stata nessuna Norimberga, ma solo presunta esportazione del progresso. Il testo di Walter Browne riesce a risvegliare queste problematiche, di cui fa affiorare la punta dell’iceberg. Le vocazioni quasi transumanistiche del 2894 si manifestano di nuovo nella capacità di estrapolare «the ethereal essence» di un corpo umano, e di imprigionare quest’anima in un supporto materiale. Continuano i discutibili orizzonti distopici della scienza del XXIX secolo, la quale ha conseguito, come visto, il potere di trasferire la coscienza umana dalla sua sede corporea (il che costituisce un sogno transumanistico della nostra epoca del XXI secolo2). La distopia scientista di questo nuovo mondo di Browne si rende evidente allorché tale cosmo, in aggiunta ai peli corporei, ha fatto scomparire l’attività onirica umana non più attiva: qui il segno del transumanesimo si rivela tangibile. Il sogno da funzione di collegamento con l’Inconscio assoluto si è trasferito nella realtà (narrata, narrativa), la quale in ultimo si scoprirà essere un sogno del protagonista letterario del romanzo (esistente a fine dell’Ottocento). Simile esperienza onirica rappresenta un monito dell’Inconscio impersonale a Lord Ammonite stesso, e di riflesso al lettore del libro. Vediamo allora che in “2894” La guerra non è scomparsa, però si combatte alla maniera di una partita a scacchi, dove le unità militari si catturano, ma non si uccidono. Inoltre sulla falsariga del “terzo tempo” del nostro rugby, i contendenti si riuniscono a pranzare in modo conviviale. Anche qui siamo su livelli distopici oscillanti con la dimensione utopica. Nella visione onirica di Lord Ammonite nulla è ben definito in un senso o nell’altro: utopia e distopia si compenetrano. Esiste ancora la pena capitale, tuttavia se una donna sposa il reo riesce a salvarlo dall’esecuzione. Simili assurdità, davanti a un giudizio razionale, interessano da vicino l’umanità. A volte la guerra e gli armamenti vengono dipinti nella veste di strumenti di civiltà, di ordine, di sicurezza. Certamente la Storia insegna che un sufficiente apparato militare può rivelarsi utile nei momenti di crisi, interna o internazionale, però una corsa al riarmo frenetico e irragionevole non è mai stata foriera di prospettive benefiche. Nel nostro tempo, dove le armi di distruzione possiedono un potere infernale, incentivare gare agli armamenti non costituisce saggia decisione. E sebbene “2894” non abbia cancellato la guerra, l’ha resa incruenta. Nel 1894 non esistevano armi nucleari; oggigiorno l’idea di attuare un conflitto con tali moderni mezzi di morte risulta la più infelice di tutte: oltre ai pezzi degli scacchi non resterebbe nemmeno la scacchiera. L’elogio degli armamenti, la corsa all’acquisizione esagerata, non producono la crescita della pacifica convivenza umana. In qualche maniera il XXIX secolo ha disinnescato in toto l’urto violento delle parti, pur mantenendo uno spazio dialettico. Il romanzo di Browne vive nel magmatico equilibrio di un qualcosa che abbisogna di essere raddrizzato meglio. Vi notiamo la possibilità delle transazioni di denaro istantanee su scala globale, il che, forse, più che una intuizione del futuro costituiva un’ambizione della società capitalistica ottocentesca cui appartenne l’autore di “2894”. Il testo in esame rispecchia la forma mentis occidentale della sua epoca di redazione. Ho analizzato questo contraddittorio sistema sociale del XXIX secolo col metro junghiano sino alla fine rintracciando nelle tensioni strutturali un input di sprone da parte dell’Inconscio impersonale alla volta dell’“individuazione” e della crescita interiore. Il popolo degli adoratori del Sole che Lord Ammonite si reca a visitare, nella sua paradossale origine da un gruppo di naufraghi civilizzati del passato, rimasto per generazioni isolato, sembra fare l’encomio dell’armonia con la Natura, un’armonia scevra di sovrastrutture sociali tipiche quali le leggi e la proprietà privata. L’anarchia beata raggiunta da quegli isolani, descritta da quella modernità quale il frutto di un processo degenerativo, al cospetto del protagonista appare invece ottima meta. Gli spunti di riflessione offerti dal testo non mancano: non ultimo il fatto che nel 2894 la Gran Bretagna rischia di essere affondata e sostituita da un’area per la coltivazione di ostriche. Sibilline velate allusioni sembrano aggregarsi a tutto il resto. Qui merita una menzione, in conclusione di analisi, la possibilità che si possano evitare condanne giudiziarie comprando degli alibi ad hoc. Alla fine di tale interessante romanzo, il quale nel suo 2894 trova piacevole ancora (purtroppo) la caccia alla volpe, è il risvegliato Lord Ammonite a riconoscere quella società del XXIX secolo «confounded chimerical Utopia». Quel mondo aveva il medesimo inquietante nome dell’isola descritta da Thomas More nella sua notissima opera cinquecentesca3.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Novità e ripresentazione”
 
1 Su Brave New World ho scritto un saggio: Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley (2015).
 
2 A proposito di transumanesimo segnalo due miei testi di riflessione: Intelligenza artificiale e stupidità naturale e Teologia transumanistica e transgenderista, rispettivamente nelle mie opere Ritorno critico (2024) e Novità e ripresentazione (2025).

https://danilocaruso.blogspot.com/2024/05/intelligenza-artificiale-e-stupidita.html

 
3 A chi volesse proseguire lungo tale filo, indico un mio studio dedicato alla suddetta opera di More pubblicato nella mia monografia Teologia analitica (2020) e intitolato Cristianesimo razionale e nazional-socialismo in Thomas More.